“… con
la testa rivolta al futuro e gli occhi rivolti al passato.” (Giorgio De
Chirico)
Metaforicamente metafisica si presenta la pratica artistica
fotografica di Matilde Cassarini.
Per la seconda edizione di Lagolandia, al Lago Brasimone, l’artista
presenta un progetto multiforme che comprende la serie di manifesti “Future, Future!”
del 2016, “Out of border” sempre del 2016, la serie di “Sovrapposizioni” e di
fotografie dedicate al centro di ricerca sulle energie nucleari, in
collaborazione con Gioele Villani, entrambe del 2015.
I sette manifesti che compongono “Future, Future!” sono disseminati
all’aperto lungo i fianchi e le curvature del Lago Brasimone, innestando una
riflessione a doppio taglio.
L’artista ha estrapolato immagini da riviste scientifiche anni
cinquanta per poi farli divenire manifesti pubblicitari contemporanei,
attraverso i quali nasce spontanea la riflessione sul progresso-regresso, sul
presente tramite lo scambio tra passato e futuro e sul ruolo del simbolo nella
cultura di massa.
L’artista si interroga su paesaggi futuribili attraverso illustrazioni
vintage, molto pop.
Pubblicità apocalittiche? Previsioni? O inquietanti pubblicità di un
tempo perduto?
Il tempo è un inganno.
E così i titoli si succedono in una scenario naturale: “Previsioni
radioattive”, “Medicapolis”, “Aerei atomici”, “La città del futuro”, “Serpenti
d’alluminio”, “Futurismo”, “Alghe”.
Impossibile non pensare ad atmosfere nord europee, come quelle
cinematografiche e visionarie di Fritz Lang, o alle sonorità elettriche e
minimali dei Kraftwerk. Entrambe, due visioni perturbanti, due cosmogonie che
trovano nella meccanizzazione-robotizzazione dei sensi il verbo.
Quelle stesse immagini visive che i Kraftwerk trasmettono inneggiando
“superautostrade” telematiche proprie di una celebrazione di un’utopia
tecnologica, già decantata dal nostro futurista Filippo Tommaso Marinetti.
Un sentire avanguardistico è dichiaratamente espresso nella traslazione
oggettuale della Cassarini, che riflette non solo sul tempo, ma anche sulla
trasformazione che esso comporta nello e sullo spazio urbano, quello presente
attraverso l’installazione del segno - manifesto pubblicitario e quello
ipotetico contenuto in esso.
In “Out of border” presentato per la prima volta in occasione di
Fotografia Europea, l’artista ritorna con la sua dialettica di intervento. Ciò
che viene analizzato in questa opera è il concetto di confine, così labile e
complesso e di spazio naturale. L’artista ha inoltre affrontato il confronto a
lei molto caro di analogico e digitale.
Ciò che vediamo, una parte di Italia, non è che una fotografia
satellitare ri-formattata con l’utilizzo di un retino fotografico estrapolato
da altrettante fotografie di elementi naturali che l’artista ha precedentemente
scattato. La fusione tra analogico – digitale ben rappresenta metaforicamente
la caduta di ogni confine di appartenenza geo-politica, geo-fisica e geo-etica.
«Un confine è soprattutto e in
primo luogo una parola che può essere utilizzata secondo diverse accezioni, in
riferimento alla soglia del dolore, al confine dell’essenza, al limite di un
disastro, al discrimine tra sanità e pazzia. (…) In un certo senso, i confini
sono la pelle dei luoghi e anche una sorta di scorza per la maggior parte delle
idee. I confini sono le nostre definizioni. E sono troppo sottili. Non c’è
niente da controllare, perché non vediamo mai l’altro lato del confine
correttamente»
Sigalit Landau - DeadSee, 2005
Il dialogo tra analogico e digitale, declinato sottoforma di paesaggio
fanta-apocalittico, metafisico ritorna nella serie di “Sovrapposizioni” e nella
serie di scatti dedicati alla centrale nucleare mai entrata in funzione.
Se le prime ricordano le atmosfere surrealiste di Eugène Atget, nelle
seconde è percepibile un’attenzione verso l’archeologia industriale di matrice
tedesca, come la famigerata scuola di Bernd e Hilla Becher.
Gli scenari in bianco e nero, abdicano all’assenza di presenze umane,
in merito ad un panteismo fantastico, irreale e visionario. La fusione di due
negativi, nelle sovrapposizioni, danno origine a nuove visioni, nuove immagini,
nuove dimensioni, nuovi vuoti semantici, nuove archeologie visuali stratificate
dove lo spazio diviene accesso alla forma del silenzio profondo delle cose.
Le architetture si confondono, che siano esse di cemento o composte di
luce ed ombre, i paesaggi si astraggono, mantenendo una purità ed un’armonia
formale onirica e rarefatta. La realtà cede il passo ad una dimensione utopistica
nuova. Avanguardistica.
Nessun commento:
Posta un commento