Nelle
opere del giovanissimo artista Marco Ceroni (Forlì, 1987) si tratta di
far esplodere il loro potenziale immaginifico. Alla voce di qualsiasi
dizionario im-ma-gi-nì-fi-co significa: … che crea immagini;
dotato di grande fantasia. Neologismo coniato nel 1728 dal grecista
Anton Maria Salvini per tradurre Platone dal greco eidolopoiós
(creatore di immagini). Il dizionario continua dicendoci che: con questa
parola si intende il carattere del creatore d'immagini, in particolare
riferito a scrittori e artisti: a esempio, per lungo tempo con questa
parola si chiamò, per antonomasia, D'Annunzio. L'Immaginifico. E ancora:
“Un’opera immaginifica sforza al massimo la nostra fantasia lasciandoci
piacevolmente spossati.” Ecco l’effetto delle operazioni di Ceroni.
In Late Night Show alla Gallleriapiù di Bologna, nella prima sala veniamo accolti dalla serie Please don’t go,
titolo esplicativo di reminiscenze nostalgiche anni Ottanta,
l’immaginario dell’artista viene filtrato attraverso una doratura
applicata su locandine cinematografiche. I protagonisti cult
seventies-eighties che hanno popolato la fantasia di intere generazioni
vengono isolati, decontestualizzati, trattenuti, resi altro da loro
stessi. Non sapendo se sono questi personaggi dalla mitologia moderna a
non abbandonarci o noi a non volercene liberare; in una sorta di
sfilata, si alternano uomini o macchine, motociclette, robot, tutti
scappati dall’oscurità delle sale cinematografiche, sono pronti a nuove
modalità di esistenza.
È così che i protagonisti de I guerrieri della notte di
Walter Hill fluttuano eterei come icone in uno spazio isolato e
isolante, tra il sacro e il profano, tra kitsch e un raffinato
concettuale, le opere di Ceroni sono appunto operazioni di confine. E
all’artista piace sovvertire la realtà fornendoci un’altra chiave di
lettura, immaginifica, amplificata appunto. L’operazione di doratura è
frequente nei lavori di Ceroni, basta citare Infoline, Denti d’oro, Bling Bling, The Golden Age,
attraverso i quali, scarti, frammenti, relitti, resti urbani vengono
riletti, ri-osservati, ri-qualificati, ri-portati sotto una nuova luce,
quella dorata. Come racconta lo stesso artista, attraverso il colore
oro, l’oggetto viene astratto e sottratto all’ordinario. Perché tutto è
già fuori, nell’epoca del ready–made, basta solo essere dotato di nuovo
sguardo per comprendere (quasi pasolinianamente) che non occorre
inventare o produrre del nuovo (che poi sono sul termine nuovo
occorrerebbero oceani di approfondimento) quanto rileggere l’esistente. E
per Ceroni rileggere l’esistente vuol dire amplificare la voce
silenziosa dello spazio urbano, che in realtà silenziosa non lo è per
niente, estenderne il potere immaginifico. I territori di confine
attraversati dall’artista sia concettualmente che fisicamente sono
territori esplosi. Post atomici? Forse. Sicuramente ogni residuo reso
nasce dall’incontro, dallo scontro con qualcos’altro, da una collisione
autentica, e ogni frammento è portatore sano di una meta-narrazione.
Questo accade nella seconda sala espositiva, quando una hit di Gigi d’Agostino diventa il titolo dell’opera. In L’amour toujours
frammenti di vetture, nella fattispecie carene di motorini, sono stati
resi calchi di resina trasparenti, come ambre 2.0, lo scontro, il
seducente crash viene cristallizzato in una forma fossile. Siamo nel bel
mezzo di una visione collassata pronta a condurci tra infiniti spazi di
possibilità. (Il che mi ha ricordato la versione erotica dello scontro
metallico del Crash di David Cronenberg). Ecco che i lavori
agiscono come interstizi di narrazione incompiuta, solo l’incontro con
lo sguardo del fruitore può decidere di compierla.
Is there life on … moon? Tanto per citare e ibridare un altro celebre titolo ‘bowieniano’, in Moonwalk
(qui si saccheggia dal pop di Micheal Jackson) Ceroni sottrae un comune
elemento urbano di sbarramento stradale per rileggerlo o eleggerlo a
qualcosa di completamente diverso, un elemento scultoreo,
neoclassicheggiante, reso tale dai basamenti preziosi di marmo giallo di
Siena. Alterare la realtà per lasciarci piacevolmente spossati. È
Ceroni.
Per Ceroni la realtà è indagine, esplorazione, e archivi infiniti dai
quali attingere sono lo spazio urbano e l’architettura. Le azioni
performative che accompagnano la poetica dell’artista lo confermano,
come negli scatti Senza Titolo (che è stata anche copertina di un numero di Artribune, dove Ceroni addenta letteralmente una porzione di materia urbana) e Strong Belief,
dove il corpo dell’artista si fonde e si mescola, si ibrida a un
elemento urbano, anche in questo caso di sbarramento stradale. Come
racconta l’artista: “Venendo a creare uno sfasamento di sguardo
all’interno del quotidiano.” Come spiega bene Fabiola Naldi nel testo
critico che accompagna la mostra analizzando un preciso termine: “Il
Parkour consiste nell'eseguire un percorso, superando qualsiasi genere
di ostacolo vi sia presente con la maggior efficienza di movimento
possibile, adattando il proprio corpo all'ambiente circostante, sia esso
naturale o urbano. Risalendo a quegli anni (gli anni Novanta) e
leggendo ciò che si iniziò a scrivere per descriverlo e forse anche per
analizzarlo, i primi termini utilizzati furono «arte dello spostamento» (art du déplacement) e «percorso» (parcours).
Ma il termine che forse si presta a tracciare in parte il lavoro di
Marco Ceroni è quello coniato da David Belle e Hubert Koundé nel 1998
che deriva da parcours du combattant (percorso del
combattente), ovvero il percorso di guerra utilizzato nell'addestramento
militare proposto da Georges Hébert. Alla parola parcours,
Koundé sostituì la «c» con la «k», per suggerire aggressività, ed
eliminò la «s» muta perché contrastava con l'idea di efficienza del
parkour. Ovviamente ciò che si vuole sottolineare qui non è la nemesi
con tale disciplina quanto la possibilità di un nuova tipologia di traceur
non più nella sua funzione “sportiva”, ma come pretesto per configurare
visivamente l’approccio che si può avere quando ci si rapporta con
spazi, più o meno metropolitani, in grado di definire temporaneamente
luoghi che oramai hanno le medesime caratteristiche di utilizzo e di
percezione”.
La mostra si chiude con un elemento ambiguo, in origine un copri-motore divenuto un muso nero dal nome Spirit
troneggia nel vuoto della parete bianca, come sinossi: “Un feticcio che
collassa violentemente su se stesso sincretizzando un frammento di
realtà e la sua esaltazione”. Spirit come l’ultimo album dei
Depeche Mode. Non è un caso. Lo è. Chi può dirlo. Mi fa sorridere
poterlo pensare. Ed è questa la forza della maschera di Spirit…
so dark, so electric. Questa esposizione, come la stessa poetica di
Ceroni giace su un fil rouge musicale variegato, popolare. Questa mia
ultima digressione, non vuol essere né leggera né perentoria ma di certo
sono sicura che le opere di Marco Ceroni siano un chiaro esempio di
come la contemporaneità vada letta, o possibilmente interpretata,
trasversalmente, ponendo criticamente questi vuoti di spazi, o questi
spazi vuoti, connettendo interstizi diversi, mantenendo un’esplosione
immaginifica che dalla musica, filtra al cinema, alle arti visive, ma
che riesce ad arrivare ad una quotidianità più stretta, più personale,
più intima, a un immaginario condiviso sospeso tra la realtà e il suo
simulacro.
Amplificare irreversibilmente questi confini tellurici.
Amplificare irreversibilmente questi confini.
Amplificare irreversibilmente.
Amplificare.
E ora la parola a Marco Ceroni.
Come definiresti l’essere artista?
Essere sempre sulle montagne russe.
Che ruolo dovrebbe avere o ha nella società contemporanea l’artista, oggi?
Ogni artista ha il ruolo che si crea, anche a seconda delle proprie
spinte e urgenze. Più generalmente l'artista si deve scontrare
continuamente con il processo inarrestabile di decerebrazione
collettiva.
Quanto reputi sia importante l’ambito della formazione (dalle Università alle Accademie) per un artista? Mi racconti come sono stati i tuoi anni da studente?
La cosa più importante sono gli incontri che si fanno in quegli anni.
Per quanto mi riguarda ho fatto prima un triennio in pittura
all'Accademia di Bologna e poi il biennio in Arti Visive e Studi
Curatoriali alla NABA a Milano. Due approcci formativi diversi che mi
hanno dato delle referenze molto ampie. Ma la cosa che poi rimane e che
ti fa veramente crescere, come ho già detto, sono gli amici e nemici che
incontri. Quelli con cui cresci e ti confronti costantemente.
Come ti sei avvicinato all’arte?
Perché non so fare nient'altro.
C’è qualcosa (un brano musicale, un testo teatrale, un film) o qualcuno (poeta, attore, regista, musicista, architetto, o artista visivo) che ti ha ispirato o ti ispira maggiormente?
Arturo Martini
Se dovessi stilare una top ten di opere d’arte (anche qui dal teatro al cinema alla danza alla musica) quali sono i tuoi “must have”?
Non li metto in ordine di importanza ma direi questi: I guerrieri della notte di Walter Hill, 1997: Fuga da New York di John Carpenter, Discovery dei Daft Punk, la serie dei Piedi di Luciano Fabro, Mr. Simpatia di Fabri Fibra, Fino all'ultimo respiro di Jean-Luc Godard, Ubik di Philip K. Dick, Delirious New York di Rem Koolhaas, Foxy Lady di Jimi Hendrix e il primo rave a cui sono andato tanto tempo fa.
Da artista – critico, come definiresti/racconteresti i lavori che hai scelto per questa esposizione alla Gallleriapiù?
I lavori presenti nella mia ultima personale Late Night Show creano un percorso narrativo: un attraversamento. Con Please don't go
ho voluto creare una sorta di orizzonte dorato. Una serie di ventitrè
locandine cinematografiche originali sulle quali sono intervenuto con la
foglia oro isolandone i personaggi. Sono tutti film che hanno
caratterizzato il mio immaginario. I personaggi vengono estrapolati dal
loro contesto ma viene amplificato il loro immaginario, in cui le varie
storie si divorano una con l'altra. I personaggi diventano una sorta di
guardiani del mio mondo. Nella seconda sala invece sono tutte sculture a
terra tra cui Moonwalk, in cui ho alterato i basamenti di un dissuasore sostituendoli con due blocchi di marmo giallo di Siena. L'amour toujours
è invece una sorta di crash ballardiano in cui calchi in resina di
frammenti di vetture diventano ambre che cristallizzano l'attimo in cui
ci scontriamo. L'ultima opera invece che incontriamo, Spirit, sincretizza un frammento di realtà e la sua esaltazione.
Che rapporto hai con la città in cui vivi?
Io sono di Faenza, ma vivo a Milano da cinque anni e penso che in
Italia sia l'unica città in cui vivrei ora. Ti dà la possibilità sia di
essere presente, ma allo stesso tempo anche di scomparire.
Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea attuale?
È una guerra e noi siamo in trincea. Ma dove dovremmo stare altrimenti?
Giunti al termine di questa conversazione, agli artisti faccio sempre una domanda … Cosa vorresti che ti chiedessi?
Il tuo incubo ricorrente?
Ultima domanda giuro. Se chiudi gli occhi in questo istante descrivici l’immagine che vedi (se la vedi).
Una Ceres gelata.
Nessun commento:
Posta un commento