È la storia di un mito, una leggenda
pronta a tramandarsi da generazione in generazione, una fenice
sofisticata e mutevole, pronta ogni volta a risorgere dalle proprie
ceneri per reinventarsi ancora una volta, come un eco, un sussurro tra
cemento e seta.
La ONO arte contemporanea in
collaborazione con l’archivio Duffy propone una panoramica sul rapporto
tra David Bowie e Brian Duffy, attraverso 25 fotografie non incluse
nella mostra “David Bowie Is”. Brian Duffy è stato uno dei fotografi più
celebri della tanto rimpianta “Swinging London” con collaborazioni
importanti, da “Harper’s Bazaar”, “British Vogue” ed “Elle France”,
Duffy ha saputo mescolare la fotografia, la vita, e la vita all’arte,
tant’è che lo studio che aprì nella casa dove viveva con la sua famiglia
ha ospitato personalità immaginifiche degli anni sessanta, da Michael
Caine a William Borroughs, tra scandali e celebrità. La collaborazione
con Bowie cominciò nel 1972, nel clou della carriera dell’artista, e ne
vide la fine intorno al 1980. Entrambi possessori di un grande talento
capace di dare vita all’immaginazione più eccentrica, entrambi con una
sensibilità estetica rara, entrambi capaci di rendere iconici e
immortali dettagli visivi della storia della musica, entrambi accomunati
dalla follia della metamorfosi e della catarsi. A partire da un
fulmine, quello truccato sul viso androgino e alieno di Bowie.
Dalle parole di Celia Philo contenute nel catalogo della mostra edito in collaborazione con LullaBit:
“Se dovessi dividere il credito per quell’immagine, dovrei dire
cinquanta per cento di David e cinquanta di Duffy; Pierre e mio. Credo
che sarebbe una valutazione corretta. Non sarebbe mai potuta riuscire
così a nessun altro. Mi sento molto privilegiata per averci lavorato
insieme a Duffy e a David Bowie. Per citare Duffy: parlare di una
sessione creativa è come parlare di un incontro di boxe. È riuscita così
perché quella sera, nella stanza, c’era un po’ di magia. Me lo dirò da
sola: è una copertina fantastica, cazzo.” A detta del figlio Chris, “Duffy era un personaggio complesso sotto molto aspetti, un anarchico marxista.”
L’esempio più emblematico fu senz’altro quello in cui tentò di bruciare
tutti i suoi negativi. Fortunatamente sopravvisse il registro dei
lavori fatti, ma Duffy dopo il decennio consecutivo ai sessanta capí che
qualcosa stava cambiando, il potere dei fotografi sembrava passato di
scettro alla banalità dell’impero commerciale e la qualità lasciata
lontana, così decise di abbandonare la fotografia per riprenderla
trent’anni dopo. Ma solo un’anima ribelle poteva comprendere i bisogni
di un uomo caduto sulla terra, per fato, direttamente dallo spazio.
Così
non solo la musica, ma anche il cinema cominciò a fare capolino nella
vita del fotografo: Brian Duffy, fu invitato dall’art director del
Sunday Times Michael Rand sul set de “L’uomo che cadde sulla terra”.
George Perry nel catalogo ricorda così la visione di Bowie: “La mia
impressione su David Bowie fu… in primo luogo che era di una bellezza
fuori dall’ordinario. Aveva quei capelli di un arancione intenso, il
volto pallidissimo e quegli occhi conturbanti […] Veniva da pensare:
“Gesù, chi diavolo è questo?” Aveva una presenza sbalorditiva, e dire che veniva da una scuola media pubblica a sud del Tamigi!”
Al contrario di come si definiva Duffy, e cioè di non essere un
fotografo compulsivo, il figlio Chris ricorda che i numerosi rullini
ritrovati da “L’uomo che cadde sulla terra” dimostrano l’esatto
contrario. Duffy era solito portare con sé una macchina singolare, la
sua preferita per gli scatti personali, una Canon Dial che funzionava
con pellicole da 35 mm, una half frame, in grado di fare settantadue
scatti. Scatti che hanno restituito un’immagine di Bowie, atemporale,
altra, eterea, nebulosa, eterna. Un corpo mitico, sospeso e intrappolato
nella pellicola, avvolto nella notte, più profonda di un luogo
proibito, celebrato da un manto di finissima e pallida sabbia, come se
il mito si propagasse in micro particelle dinanzi a noi. Energia
condensata nello spazio millimetrico.
Nel 1979, alla vigilia dell’uscita
di Lodger, Bowie scelse ancora Duffy per realizzarne la cover. La
session ebbe luogo nello studio del fotografo, che tempo prima aveva
costruito una piattaforma sospesa tra le travi del suo studio per
fotografare da un’altezza di nove metri. L’effetto del viso, deformato
da sottili fili di nylon, unito alla ripresa dall’alto, fecero sembrare
Bowie in caduta libera. Scary Monster, del 1980, invece fu l’ultimo
servizio che Duffy realizzò per Bowie, forse anche per il fatto che alla
fine fu data alle stampe la copertina praticamente tutta al tratto, di
Bell.
Una personale questa, ricca di
retroscena, che ripercorre lo stretto legame tra grandi artisti come
David Bowie e Brian Duffy, e che si configura come l’ultima tappa di un
progetto di riscoperta delle immagine dell’artista che ONO iniziò nel
2012 proprio con l’archivio Duffy. Mi piace pensare a entrambi gli
artisti come a due “cittadini della trascendenza”, John Berger
nel suo “Presentarsi all’appuntamento – narrare le immagini” ha ripreso
una domanda che Federico Fellini si pose a suo tempo, e che vale la pena
riportare: “Che cos’è un artista? Un provinciale che si trova da
qualche parte a metà strada tra realtà fisica e realtà metafisica.
Davanti a questa realtà metafisica siamo tutti dei provinciali. Chi sono
i veri cittadini della trascendenza? I Santi. Ma il vero regno
dell’artista è questo ‘in mezzo’ che chiamo provincia, questo paese di
frontiera tra mondo tangibile e mondo intangibile.”
È inevitabile
quindi presentarsi a quest’appuntamento con le immagini di uno dei più
grandi artisti del nostro secolo, capace di abbracciare atemporalmente
un’idea di prismatismo assoluto.
Federica Fiumelli