Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

lunedì 7 novembre 2016

Brian Duffy e David Bowie: FIVE SESSION @ONO ARTE CONTEMPORANEA






È la storia di un mito, una leggenda pronta a tramandarsi da generazione in generazione, una fenice sofisticata e mutevole, pronta ogni volta a risorgere dalle proprie ceneri per reinventarsi ancora una volta, come un eco, un sussurro tra cemento e seta.

La ONO arte contemporanea in collaborazione con l’archivio Duffy propone una panoramica sul rapporto tra David Bowie e Brian Duffy, attraverso 25 fotografie non incluse nella mostra “David Bowie Is”. Brian Duffy è stato uno dei fotografi più celebri della tanto rimpianta “Swinging London” con collaborazioni importanti, da “Harper’s Bazaar”, “British Vogue” ed “Elle France”, Duffy ha saputo mescolare la fotografia, la vita, e la vita all’arte, tant’è che lo studio che aprì nella casa dove viveva con la sua famiglia ha ospitato personalità immaginifiche degli anni sessanta, da Michael Caine a William Borroughs, tra scandali e celebrità. La collaborazione con Bowie cominciò nel 1972, nel clou della carriera dell’artista, e ne vide la fine intorno al 1980. Entrambi possessori di un grande talento capace di dare vita all’immaginazione più eccentrica, entrambi con una sensibilità estetica rara, entrambi capaci di rendere iconici e immortali dettagli visivi della storia della musica, entrambi accomunati dalla follia della metamorfosi e della catarsi. A partire da un fulmine, quello truccato sul viso androgino e alieno di Bowie.

Dalle parole di Celia Philo contenute nel catalogo della mostra edito in collaborazione con LullaBit: “Se dovessi dividere il credito per quell’immagine, dovrei dire cinquanta per cento di David e cinquanta di Duffy; Pierre e mio. Credo che sarebbe una valutazione corretta. Non sarebbe mai potuta riuscire così a nessun altro. Mi sento molto privilegiata per averci lavorato insieme a Duffy e a David Bowie. Per citare Duffy: parlare di una sessione creativa è come parlare di un incontro di boxe. È riuscita così perché quella sera, nella stanza, c’era un po’ di magia. Me lo dirò da sola: è una copertina fantastica, cazzo.” A detta del figlio Chris, “Duffy era un personaggio complesso sotto molto aspetti, un anarchico marxista.” L’esempio più emblematico fu senz’altro quello in cui tentò di bruciare tutti i suoi negativi. Fortunatamente sopravvisse il registro dei lavori fatti, ma Duffy dopo il decennio consecutivo ai sessanta capí che qualcosa stava cambiando, il potere dei fotografi sembrava passato di scettro alla banalità dell’impero commerciale e la qualità lasciata lontana, così decise di abbandonare la fotografia per riprenderla trent’anni dopo. Ma solo un’anima ribelle poteva comprendere i bisogni di un uomo caduto sulla terra, per fato, direttamente dallo spazio. 

Così non solo la musica, ma anche il cinema cominciò a fare capolino nella vita del fotografo: Brian Duffy, fu invitato dall’art director del Sunday Times Michael Rand sul set de “L’uomo che cadde sulla terra”. George Perry nel catalogo ricorda così la visione di Bowie: “La mia impressione su David Bowie fu… in primo luogo che era di una bellezza fuori dall’ordinario. Aveva quei capelli di un arancione intenso, il volto pallidissimo e quegli occhi conturbanti […] Veniva da pensare: “Gesù, chi diavolo è questo?” Aveva una presenza sbalorditiva, e dire che veniva da una scuola media pubblica a sud del Tamigi!” Al contrario di come si definiva Duffy, e cioè di non essere un fotografo compulsivo, il figlio Chris ricorda che i numerosi rullini ritrovati da “L’uomo che cadde sulla terra” dimostrano l’esatto contrario. Duffy era solito portare con sé una macchina singolare, la sua preferita per gli scatti personali, una Canon Dial che funzionava con pellicole da 35 mm, una half frame, in grado di fare settantadue scatti. Scatti che hanno restituito un’immagine di Bowie, atemporale, altra, eterea, nebulosa, eterna. Un corpo mitico, sospeso e intrappolato nella pellicola, avvolto nella notte, più profonda di un luogo proibito, celebrato da un manto di finissima e pallida sabbia, come se il mito si propagasse in micro particelle dinanzi a noi. Energia condensata nello spazio millimetrico. 

Nel 1979, alla vigilia dell’uscita di Lodger, Bowie scelse ancora Duffy per realizzarne la cover. La session ebbe luogo nello studio del fotografo, che tempo prima aveva costruito una piattaforma sospesa tra le travi del suo studio per fotografare da un’altezza di nove metri. L’effetto del viso, deformato da sottili fili di nylon, unito alla ripresa dall’alto, fecero sembrare Bowie in caduta libera. Scary Monster, del 1980, invece fu l’ultimo servizio che Duffy realizzò per Bowie, forse anche per il fatto che alla fine fu data alle stampe la copertina praticamente tutta al tratto, di Bell.

Una personale questa, ricca di retroscena, che ripercorre lo stretto legame tra grandi artisti come David Bowie e Brian Duffy, e che si configura come l’ultima tappa di un progetto di riscoperta delle immagine dell’artista che ONO iniziò nel 2012 proprio con l’archivio Duffy. Mi piace pensare a entrambi gli artisti come a due “cittadini della trascendenza”, John Berger nel suo “Presentarsi all’appuntamento – narrare le immagini” ha ripreso una domanda che Federico Fellini si pose a suo tempo, e che vale la pena riportare: “Che cos’è un artista? Un provinciale che si trova da qualche parte a metà strada tra realtà fisica e realtà metafisica. Davanti a questa realtà metafisica siamo tutti dei provinciali. Chi sono i veri cittadini della trascendenza? I Santi. Ma il vero regno dell’artista è questo ‘in mezzo’ che chiamo provincia, questo paese di frontiera tra mondo tangibile e mondo intangibile.” 

È inevitabile quindi presentarsi a quest’appuntamento con le immagini di uno dei più grandi artisti del nostro secolo, capace di abbracciare atemporalmente un’idea di prismatismo assoluto.

Federica Fiumelli





 

Un interno di design bolognese. Viaggio surreale attraverso uno spazio reinterpretato





di
 
In occasione della seconda edizione della Bologna Design Week, lo spazio dell’associazione culturale ABC ha proposto una lettura trasversale e cinematografica del design. Il progetto a cura di Fausto Savoretti, Lucilla Boschi e Fabio Fornasari è stato un autentico viaggio nel design “bolognese” degli anni ’50 e ’60: un’epoca pionieristica nei confronti delle innovazioni estetiche, e non di ultima importanza, la mostra ha voluto essere un esplicito omaggio a personaggi di rilievo come Gianpaolo Gazziero e Dino Gavina. 

L’esposizione ha raccolto pezzi unici provenienti dalla collezione di Gazziero, insieme a interventi grafici e testuali a cura del duo Boschi–Fornasari di Lif3. Questa unione è stata proprio il punto di forza del progetto: allo stesso tempo si è indagato su concetti differenti come il collezionismo, la natura dell’oggetto di design, il voyeurismo, ma tutti aventi un comune denominatore, e cioè la passione intrinseca all’atto del guardare, l’illusione del possesso tramite lo sguardo che concretizza così attraverso forme e parole. 

Quello che si è ricreato negli spazi di ABC è così a sua volta uno spazio di meta riflessione. “Le cose più ovvie sono invisibili agli occhi”, e così l’esposizione è divenuta un gioco di metafore e rimandi, un gioco surrealista che ci ha accolto in una possibile camera da letto con lo specchio – Les grands trans-parents di Man Ray. Oltre alla superficie riflettente, infatti era presente il letto dal profilo essenziale e di rara colorazione, Vanessa del 1959, pensato da Tobia Scarpa, poco più a lato invece, Broadway, la sedia tentacolare del 1993 di Gaetano Pesce, prodotta da Bernini. Accostamenti in punta di piedi in grado di rilevare l’importanza del gusto e del godimento estetico connaturato al collezionismo. 

Dalla seduzione notturna e sfocata, stratificata e velata, si è susseguita un'altra ipotesi di interno (perché di ipotesi si parla in questa mostra, di costruzioni precarie e molteplici), questa volta il soggiorno della GUFRAM con il celebre e iconico divano Bocca del 1970, ispirato al ritratto di Mae West di Salvador Dalì, e come compagna la lampada Big Shadow di Marcel Wanders dal colore rosso pastello acceso, un colore oggi fuori produzione. Di rarità sofisticata anche il tavolino Traccia, progettato da un’altra grande devota surrealista, Meret Oppenheim, un oggetto parte della collezione Ultramobile voluta da Dino Gavina. 

Bologna è ritornata invece, in questo viaggio di spazi reinterpretati, nelle ceramiche di Pastore e Bovina, fondatori dello studio Elica, un luogo di sperimentazione e ricerca per quanto riguarda tutte le diverse arti, dalla scultura, alla musica, alla moda, alla poesia e al teatro. Un interno di design bolognese, si è posto come spazio di narrazione attivo, tramite il quale il fruitore voyeur ha riscoperto l’oggetto di design come qualcosa di diverso dalla concezione stereotipata legata a un’idea di serialità asfittica. Quel che qui si è desiderato trasmettere, è la diversità intrinseca agli oggetti di origine seriale. 

Come hanno sottolineato Lucilla Boschi e Fabio Fornasari, già il surrealismo aveva capito che le cose emanano sempre qualcosa di differente, “di diverso rispetto all’eco della loro stessa visione”. “La serialità degli oggetti industriali che si caratterizza attraverso il processo che li ha prodotti (design) si è trasformata in serialità di natura narrativa (fiction)”. Se veniamo sedotti da oggetti di indiscutibile bellezza e carisma, come succede anche con le opere d’arte, un buon disco o un ottimo film, è vero che la necessità di sguardo provoca, a detta degli stessi curatori, un comportamento proprio di soggetti colpevoli. Ecco così che diveniamo “ladri di intimità” e come rei non ancora confessi ci troviamo sul luogo del delitto. 

In questa esposizione è stata forte un’idea hitchcockiana di produzione e ricezione di sguardo. Gli spazi di ABC si sono trasformati in una pellicola in bianco e nero dove noi, concreti spioni, abbiamo osservato e saccheggiato dettagli visivi dello e dallo spazio reinterpretato che altro non è che una finestra sul cortile. Un appunto recitava: “Basta che qualcosa mi significhi che qualcuno può essere là. Questa finestra, se fa un po’ buio, e se vi sono ragioni per pensare che vi sia qualcuno dietro, è già, sin d’ora uno sguardo”. 

Accanto, il libro di Slavoj Zizek, Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi è stato aperto proprio su pagine riportanti riflessioni che si scoprono essere aspetti costitutivi dell’esposizione. I curatori alla stregua di Hitchcock sono partiti da un insieme di sinthomi, motivi (solitamente visivi) che tormentano l’immaginazione, pretesti di una narrazione che accade (come la vita) solo in un secondo momento. “Hitchcock inventava storie solo per poter girare un certo tipo di scene”. 

Così negli spazi di ABC, libri, oggetti, immagini, da polaroid di Tarkovskij a Richter si sono alternati come sinthomi di una narrazione sospesa e fusa tra specchi e sguardi. Nell’ambiente si sono spartiti l’idea di uno spazio condiviso La joie est le la clef du bonheur, un vinile e un pensiero di Le Corbusier, le Empty words di John Cage e Le parole nel vuoto di Adolf Loos ancora imbustato, sospeso in aria, mai letto, ma conservato, come si conserva il non detto.

Tutto questo ha tessuto un ordito di pensieri in divenire, in vertigine. Il design si è acceso di seduzione e delittuosità, ma di una cosa non dobbiamo essere assolutamente colpevoli come ha giustamente ricordato e sottolineato Gianpaolo Gazziero, di considerare il prodotto di design come qualcosa di elitario, di distante dalla quotidianità, dobbiamo invece imparare a frequentarlo di più, a possederlo, come si fa con la bellezza. Uno sguardo dalla finestra.