Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

venerdì 22 luglio 2016

The Rolling Stones – It’s only rock and roll (but I like it) @ONO Arte Contemporanea

link: http://julietartmagazine.com/it/events/the-rolling-stones-rock-roll-but-it/





C’è una frase, molto semplice e banale se vogliamo, tratta da una pellicola cinematografica che ben rende l’idea di una generazione devota alla necessità dell’arte. “Gli anni passeranno e i politici non faranno mai un cazzo per rendere il mondo migliore, ma in tutto il mondo ragazzi e ragazze avranno sempre i loro sogni, e tradurranno quei sogni in canzoni.”

Dal film “I love radio rock” di Richard Curtis

“Would it be enough for your cheating heart
If I broke down and cried? If I cried?
I said I know it’s only rock ‘n roll but I like it
I know it’s only rock ‘n roll but I like it, like it, yes, I do
Oh, well, I like it, I like it, I like it”

È in un caldo giorno estivo che fatica a spegnersi, come la rock band più famosa del pianeta, è con con quel ritmo e quell’intensità che la galleria bolognese Ono Arte Contemporanea decide di omaggiare i Rolling Stones attraverso i cinquanta scatti di due pilastri britannici della fotografia, Micheal Putland e Terry O’Neill con la mostra “The Rolling Stones – It’s only rock and roll (but I like it).
È tra disordine erotico, intimità e aggressività trasbordante che la fusione tra l’eredità del rock anni cinquanta e il blues si sono incontrati nell’arte dei Rolling Stones. Un gruppo talmente mitico che si fatica a esprimere a parole la grandezza di un fare artistico così virale e capace di travolgere e seminare proseliti a distanza di decenni, quasi ci si sente obbligati a inchinarsi a cotanta storia preziosa e globale. Un rock che ha scosso ormoni e coscienze, un rock che ha donato la propria anima al diavolo perché con i perbenismi ci si è pulito la suola consumate delle scarpe. Sono scarpe importanti quelle dei Rolling Stones, scarpe che hanno lasciato passi indelebili nel cuore e negli orecchi di milioni di fans, scarpe che hanno saltato a ritmo di un giro di basso sui palchi più leggendari. Scarpe immortali e impavide.
Terry O’Neill li ha immortalati per le strade di Londra, della “Swinging London” regalandoci alcune delle immagini più famose del gruppo in quella che possiamo definire come la formazione originale e più amata, con Mick Jagger, Keith Richards, Charlie Watts, Bill Wyman e l’oramai leggendario Brian Jones. «Everywhere you looked in London, something was happening». Così ha definito lo stesso O’Neill quel periodo caldo e magmatico, denso, e febbricitante che dalle generazioni a venire, è stato ed è visto come uno dei periodi artistici più prolifici della storia. Un gruppo, quello capiteneggiato dalle labbra carnose e androgine di Mick Jagger, che negli anni’60 ancora vagava nelle strade della capitale britannica alla ricerca di una propria identità estetica specifica, ed elemento certo non di second’ordine, che si trovava a “rivaleggiare” con i rassicuranti e pacifici Beatles. I Rolling Stones tra voglie demoniache e una sessualità espansa, oltraggiosa, coraggiosa, si sono scelti (o sono stati scelti) un’arte sismica, tellurica, capace di scuotere anche lo scettico più ostico e statico. I loro dischi, uno dopo l’altro sono stati mezzi di autentica e originaria conversione al piacere sfrenato e selvaggio. Una libido implacabile ma terribilmente sincera, portatrice sana di una generazione desiderosa e spumeggiante.
È quindi il fotografo O’Neill, batterista jazz, innamorato della musica, arrivato alla fotografia un po’ per caso e necessità dapprima all’interno della British Airways e dopo come fotoreporter, a donarci l’immagine quasi ingenua, intima, di quella che potremmo definire “l’adolescenza artistica” dei Rolling Stones. Il mito prima del mito, i Rolling Stones prima dei Rolling Stones. È stato nel decennio successivo, in tutti gli anni settanta che invece un altro maestro come Micheal Putland è riuscito ad immortalare tra backstage, party e performance l’identità ormai formata è affermata, decisa e grintosa del gruppo. Se i Beatles smisero di fare live nel 1966, la peculiarità targata Rolling Stones è stata sicuramente quella di aver dato smalto e forza al loro essere tramite le performance live. Ed è così ancora oggi. Il decennio dei Settanta ha palesato e dimostrato la potenza di un gruppo musicale devoto a un’unica fede: quella del rock, e gli scatti di Putland, testimoniano la grandezza di un’era, un’atmosfera, un clima dove il mito poteva resistere e ridere in faccia al precariato del successo. Tra una pausa delineata dal fumo di una sigaretta, tra corde di chitarra e microfoni, tra outfit succinti e platee invase da corpi sudati e fanatici, tra sorrisi e passioni stravaganti, l’erotismo sfrenato del rock si fa mito, negli scatti in bianco e nero fissati nella storia dall’occhio di Putland, un artista che di leggende musicali se ne intende bene, solo per ricordare, dal suo obiettivo sono passati personaggi del calibro di Stevie Wonder, David Bowie, Ladies Tea Party, Annie Eve, The Clash, Tom Waits, Bruce Springsteen, Bob Marley, Frank Zappa, Van Morrison, Bee Gees, Nina Simone e tanti altri.
Anche in questa mostra la Ono Arte Contemporanea mette in scena il lato B del vinile, quello più intimo, segreto, quello più privato e inedito, quello meno conosciuto e più godibile, è così che ci viene offerta la possibilità di spiare la storia da un interstizio atemporale, così definirei il mezzo fotografico, uno strumento che grazie alla capacità di maestri appassionati come O’Neill e Putland ci offrono il disvelamento del mito, dei segreti preziosi, delle note sussurrate, oltre la capacità umana di comprendere, lì, l’arte per l’arte aiuta la leggenda a rimanere tale.

Federica Fiumelli








 

giovedì 14 luglio 2016

This must be the place #01 - asse Bologna - Londra




"Never for money, always for love" è così che mi infrango portico dopo portico tra le forme di un tortellino, magari progettato da Depero, e un bicchiere di vino.
Secco va giù meglio, ma non come l'angoscia di chi manca sempre il consiglio giusto.
Giusto? Ma poi cosa? Non lo puoi sapere quando decidi di restare. Non ora, ma qui.
Il mio viaggio non è lontano, è più fedele come un pendolo che frenetico come un minipimer, e radicato come un frutto, ordinario, binario su binario con la maleducazione di chi non sa tacere e il sopismo degli annoiati.
Tutto scorre al bit di un semaforo. E staccho i giorni dal calendario come i post it promessi e dimenticati nella polvere.
Ma a questa città piena di contraddizioni voglio bene, sì perché qui talvolta accadono gesti autentici d'amore. Il romanticismo è sempre disobbediente, l'ho letto di sfuggita da qualche parte e l'ho fatta subito mio, un pensiero maledettamente e squisitamente erotico. Ma digressioni a parte, stavo appunto dicendo che questa città è capace di risolutori atti artistici, veri e propri atti politici.
E ultimamente è stata teatro di un autentico gesto tragico, catartico in grado di far riflettere e far scatenare discussioni, gesti che non si vedevano da tempo.
Quel che piace a me...e quello che porto con me è l'immagine iconoclasta di un artista che in seguito ad una dubbia operazione di marketting (enfasi sulla doppia t) anziché culturale (come quest'ultima invece dichiarava negli intenti) ha cancellato per sempre le proprie opere dal volto di questa città.
Ai più suonerà non certa nuova questa storia, che non deve cessare di essere raccontata come succede troppo spesso nella memoria effimera e di facile dimenticanza, propria delle luci della ribalta tipiche dei social network. E che dire della collaborazione di ragazzi dei centri sociali (e non solo), fianco a fianco a cancellare e rimuovere nel Blu dipinto di grigio? Uniti per un ideale. Questa sì che è una bella immagine del termine "insieme".
"E qualcosa rimane tra le pagine chiare" e tra le strade, un grido molto più forte di tutti gli stilemi convenzionali dell'avido capitalismo. Quanti commenti piovuti in questo grigio, molteplici scagliati senza cognizione di causa, tipica della 'legione di imbecilli' professata da Umberto Eco in merito alla democratica presa di parola concessa dai social; poche le riflessioni precise, puntuali, colme di coscienza critica. Ho la fortuna di essermi formata con persone oneste e competenti e a loro come a questi gesti di romanticismo disobbediente va il mio plauso e la mia stima. La bellezza di un gesto responsabile che porta a farti sentire parte di una comunità, di una collettività.
Ritorna intrepido "Never for money, always for love" esattamente da dove eravamo partiti, siamo tornati per perderci tra i contrasti, come succede alla crème de cassis con il vino bianco. Sai certe notti capita di infrangersi nei suoni che Jeff Mills porta direttamente da Detroit e tu in quel momento sei talmente incosciente, scalza tra i vetri di un amore negato, che ti scoppia il cuore a vedere l'alba sulle tag del Link, la meraviglia amica mia, a qualche meridiano di distanza è anche questa: colmare l'assenza con atti di allucinata consapevolezza come se la mancanza fosse un bicchiere troppo piccolo e lussuoso per contenere la tua sete.
Ho deciso di restare perché anteposte all'orizzonte, le cose sono sfuocate come nelle foto di Brigitte March Niedermair, nate dalla riflessione sulla poetica Morandiana, cerco di mettermi a fuoco, oltre un limite, perché questo forse 'this must be the place'. E so che tu nel silenzio, di fronte a quelle immagini mi avresti capita. Ci si capisce sempre tra le fila immaginarie di un museo.
Le città sono come le scrivanie e come le scelte, sono universi di tediosa ma necessaria ambiguità...che poi io non fumo nemmeno, ma accanto a vecchie polaroid vergini tengo come un reliquiario un pacchetto consunto di marlboro rosse, per fissare il vizio, per sempre. A proposito delle scrivanie, vedi? Siamo pieni di contraddizioni o controindicazioni. Ma è meraviglioso sentirsi irrisolti. E mentre corro frettolosamente a prendere l'ultimo treno, senza disattenzione come senza mascara, arrivo sotto le due signore della città, così alte e imperfette che bucano il cielo, qualcuno passa con il finestrino della macchina abbassato e Patti Smith canta "My generation".

Federica Fiumelli - Bologna


Scegliere di partire non è mai semplice, è difficile scendere al compromesso di lasciare le proprie geografie emotive antropomorfe fatte di luoghi e di persone, per andare a ricrearsi un'esistenza ex novo a migliaia di chilometri più in là.
Scegliere di inseguire un sogno definito sebbene al contempo nebuloso è un atto di coraggio quasi quanto quello di restare. Quando il tempo scorreva veloce e l'ansia del futuro si stringeva a me ho dovuto scegliere se attuare la mia rivoluzione in un'Italia bella ma pietrificata o se scappare via, e andare nella fluida capitale anglosassone. Difficile scegliere, ma non poi così tanto. Era un pomeriggio caldo di inizio autunno ed io ultimavo le conclusioni della mia indagine sulla meraviglia, per mesi mi ero accademicamente interrogata sull'importanza di questa nella filosofia e nelle arti. Quante estenuanti giornate avevo passato ad inseguire per tradizione indiretta il significato ultimo dello stupore. Con l'ultimo sole del pomeriggio la mia meraviglia è arrivata come un'epifania attraverso un passo di Tondelli, quello famoso dell'odore. In un attimo ho capito il da farsi e così, come quando nel 2010 l'odore mi portò in via Paolo Fabbri tra le foglie cadute e destinate a perire ed il profumo dei tortellini di Vito, stavolta questo mi portava inequivocabilmente a Londra. Sono quindi partita, pronta a fare la mia rivoluzione qua.

Overwhelmed dalla possibilità multistimolante che offre la città a volte mi dimentico di stare col naso all'insù, dimentico di essere ricettiva al senso olfattivo e mi perdo nella miriade di altri stimoli sensitivi. In un certo senso mi immergo nella città carica di quel senso di opera d'arte totale professato da Wagner.
Nella metropoli che corre senza sosta mi trovo a sperimentare un rinnovato senso di lentezza dettato dalla consapevolezza di essere finalmente, almeno per un po', al posto giusto nel momento giusto. C'è freddezza nelle persone che ogni mattina, assorte nella loro vita frenetica, attraversano con me la città sotto terra. Sguardi timidi difficilmente seguono un approccio conoscitivo, ognuno teme semplicemente non avere il tempo per conoscere l'alter. Va bene così, questo mi dà il modo di esplorare la piccola fauna sotterranea con cui convivo a stretto contatto per almeno un'ora e mezza tutti i giorni.
"Do you have love for human kind?" cantano le CocoRosie in questa mattinata grigia, le loro voci mi ricordano una serata risalente a due vite fa quando, nel pieno di una frizzante adolescenza, finii ad un loro concerto, non le apprezzai, non quanto ho imparato a fare poi, all'alba dei 25 anni. Ecco, il mio amore per il genere umano l'ho riscoperto qua, nella varietà di una metropoli multiculturale. Il confronto con nuove culture è brevemente diventato il centro della mia ricerca personale.
Parimenti, il panorama artistico che la città ha da offrire è talmente vasto che è difficile non essere travolti dalla ampia scelta. Mi rinnovo ogni giorno, perdendomi in disparate produzioni artistiche, lasciando a casa i pregiudizi e immergendomi con una gioia al sapore di epochè all'interno di tele, installazioni, sculture e performances.
Dopo anni di rifiuto quasi iconoclasta nei confronti di ciò che non era assolutamente contemporaneo ritrovo ad apprezzare ed a ricercare con un fare quasi lussurioso ed avido ciò che mai pensavo avrei apprezzato e mi colgo stupefatta nel ricercare nelle forme antiche i tratti di un concettuale ante litteram che mi travolga e che mi coinvolga in un sentimento di appagamento sinestetico.
Sempre più mi trovo attratta dalla dimensione cromatica dell'arte. A volte, perdondomi davanti ai Rotkho esposti in una sala buia della Tate, provo il desiderio di accendere la luce per potermi acciecare con il colore pigmentato.
A sedere su una delle panche in penombra, chiudo gli occhi e sento, sotto ai piedi, il pavimento in cemento dell'ex seccatoio dimora dei monocromi di Burri. Con il senso tattile della mente, seduta davanti alle opere di Mark, percorro le superfici nere di Alberto, sfiorando con un polpastrello impalpabile ora l'opaco, ora il lucido colore denso e piatto. Il mio viaggio continua e vago con la mente, sono dentro alle dimensioni spaziali e cromatiche di Spalletti e mi interrogo sulla valenza sociale e artistica del medium pittorico.
Il mio odore mi ha condotta a Londra perché è da qua, dal suo sentimento metropolitano permeante, che posso intraprendere una ricerca conoscitiva che mi coinvolga a pieni sensi.
Così, immergendomi nei luoghi che hanno visto nascere la YBA e che, più o meno metaforicamente, sono tappa obbligata per tutta l'arte, sento il bisogno di dover tornare ad interrogarmi sulle roots dell'arte e, nella fattispecie, sulla valenza della pittura stessa. Davanti al letto di Tracy Emin, finalmente in esposizione alla Tate Britain, mi chiedo se la mia rivoluzione non debba ripartire proprio dall'atto pittorico.
Rewind. Riparto da qua, dal colore puro.

Claudia Zanardi - Londra


mercoledì 13 luglio 2016

You and Myself. Intervista ad Andrea Bianconi






Fino al 24 luglio gli spazi di Casa Testori a Novate Milanese si fanno temporalmente trasversali e geograficamente globali, è infatti possibile immergersi nei dieci anni di performance dell’artista vicentino, classe’74, Andrea Bianconi.
La mostra, a cura del critico Luigi Meneghelli, approfondisce con grande precisione la poetica di Bianconi, il quale, da sempre nei sui gesti performativi ha esplorato come un vero funambolo il complesso e prismatico rapporto con l’altro. You and Myself è una mostra dunque che indaga l’io nostro e degli altri in una perpetua oscillazione di senso. Gli interrogativi di Bianconi hanno tappezzato tanti luoghi, e l’artista infatti vanta fra le sue recenti esposizioni, una public performance tra la Piazza Rossa, il Cremlino e il Manege Valencia, Madrid, New York, United Arab Emirates, Basilea, Palazzo Reale, Milano, Shanghai. Nel 2011 Charta ha pubblicato la sua prima monografia, nel 2012 Cura.Books il suo primo libro d’artista Romance e nel 2013 il secondo dal titolo Fable. Entrambi fanno parte della collezione del MoMA, NYC. 

Consigli per la fruizione: dimenticate chi siete e fate di ogni dettaglio la vostra gabbia temporanea.
Ami raccogliere, accumulare, mescolare oggetti, come ricorda Luigi Meneghelli nel testo di presentazione alla mostra citando Italo Calvino che definisce “redenzione degli oggetti” il riscatto del banale. Che rapporto hai con gli oggetti dunque? Ce lo racconti solitamente tramite le performance, a parole?
Cerco continuamente oggetti, li accumulo nei miei studi, li colleziono, cerco tra di loro una possibile relazione, un rapporto, un legame. L’oggetto è da una parte strumento, dall’altra soggetto, cerco di dargli una nuova vita, una seconda possibilità. Come li scelgo? Non li scelgo, loro mi si presentano di fronte… inaspettatamente. Mi rivelano l’altro. Pensa che in ogni studio ho una gabbia appesa, vuota, e sopra la mia sedia, serve a contenere i pensieri o le idee, quando sono troppe.
Ogni tua performance è corredata, composta da disegni, fotografie e scrittura. Ti chiedo, che rapporto hai con ognuno di questi medium? C’è qualcosa che in fondo prediligi?
Il disegno mi segue ovunque, è parte di tutto, del progetto e della realizzazione, per me non c’è un confine tra disegno è performance, il segno è sempre gesto e il gesto segno. Quando per esempio ho disegnato Romance, un libro fatto di 5000 disegni-scritti, dove ripercorrevo la storia della mia vita, l’ossessione era dominante, era dominante il fatto che ogni segno o ogni parola fosse legata alla precedente e al seguente, come un’infinita catena parentale. Mi interessava il segno, il gesto, la ricerca di tracce di qualcosa che potrebbe anche non esserci, come direbbe Calvino. Tutto era legato a un momento, sia l’azione che la reazione, tutto diventava corpo. Poi questo libro è diventato un video dove proiettavo sulla maschera della mia faccia tutti questi segni, come se la mia vita mi scorresse davanti agli occhi. Quindi, quando uso diversi media, che possono essere anche foto, video, parole, suoni, musiche, tutto è in relazione, tutto è una grande catena, è un grande tutto.
In questa intervista mi avvalgo spesso della parola “rapporto”, ho riscontrato negli appunti delle tue performance che sia un concetto fondamentale, un approccio irreversibile che hai con il mondo, e ne sembri romanticamente consapevole. Che rapporto ha l’artista con l’amore? Penso a You always go down alone, Forever and Ever, Love story … Secondo te il romanticismo è sempre disobbediente? È una frase che ho letto da qualche parte e mi ha personalmente colpita molto.
Cerco continuamente rapporti, tra gli oggetti, tra le culture, indago i rapporti… l’altro è fondamentale in tutta la mia ricerca, non ci può essere You senza Myself, e viceversa. Con Forever and Ever ho iniziato a chiedermi cos’è il matrimonio, il legame tra due persone... io e mia moglie ballavamo con due gabbie la canzone del nostro matrimonio, vestiti con gli abiti nuziali. In Love Story, mi immaginavo re dei fiori, l’idea mi era venuta a Toronto in una giornata freddissima, gelida, piena di ghiaccio, due persone camminavano tenendosi per mano, senza guanti… quelle mani mi hanno raccontato una Love Story. Mi chiedo cos’è l’amore, dov’è la poesia… credo nel romanticismo, in quella cosa che ti fa vedere e sentire dolcemente, in quel sentimento che mi fa vibrare e illuminare, in quel gesto che mi fa vivere.
Sono recidiva, che rapporto ha Bianconi con gli altri artisti? C’è qualcuno che ti ha ispirato fin dagli esordi? Con chi condivideresti una possibile residenza in un posto remoto e isolato?
Gli altri artisti… non mi piace la parola altri, in questo caso, gli artisti sono sentimenti di Passione, sono atti d’amore, lo scambio e il confronto sono vitali, perché tracciano un tempo. Per esempio alla Biennale di Mosca, o al MSK Museum of Fine Arts a Ghent, ho collaborato con Mark Licari e Ricardo Lanzarini a degli enormi wall drawing, lavoravamo insieme giorno e notte, i miei disegni si sovrapponevano con i loro, e viceversa, cercavamo un dialogo, un Dialogo Illuminato ( così si chiamava il lavoro di Mosca), ci rispettavamo… Abbiamo un nuovo progetto assieme in un posto isolato. Ultimamente poi, guardando il cielo, ho trovato una stella Blue. Con la mia nuova performance Draw Me sto chiedendo a tutti di disegnare sulla mia faccia in una cartolina, di spedirla a Casa Testori, sto cercando di realizzare un World Drawing Project, un progetto collettivo.
E con la critica invece? Che rapporto hai? Come vedi e vivi il rapporto tra poiesis e riflessione filosofica?
La poesia è ciò che mi lascia senza parole, la riflessione filosofica è ciò che mi fa usare le parole. Dipende dai giorni, dai momenti, dagli attimi, … alcune volte alcuni fatti ci influenzano… noi pensiamo e ripensiamo e vediamo due vie di fuga: la poesia o la riflessione… se siamo capaci a unirle diventa espressione. Ho sempre avuto come punto fermo l’essere critico verso me stesso, alcune volte non so se la critica guarda, osserva, capisce o cerca di intuire, è una domanda che continuo a farmi.
Dieci anni di performance vengono documentati e raccontati in questa mostra You and myself. Di tutte quelle presentate, se dovessi sceglierne una e una soltanto, quale ha provocato in te il sentimento nobile e precario della vertigine?
In ogni performance cerco una caduta, cerco quella perdita di equilibrio che mi fa andare altrove, che mi fa andare talmente in alto fuori da me stesso e talmente in basso dentro che stesso, in profondità, e se “la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare”, io in ogni performance cerco la caduta della performance stessa, cerco la voglia di cadere per poter volare. D’altronde quando avevo 15 anni volevo fare il pilota di caccia. La vertigine più intensa l’ho provata con Time is Timing (2015), dove 300 sveglie suonavano a distanza di un secondo l’una dall’altra… alla fine tutte suonavano contemporaneamente, e io immobile al centro, paralizzato.
Mi ha incuriosita la tua passione e ammirazione per l’illusionista Harry Houdini, e sempre Luigi Meneghelli, nel testo critico, riferendosi a Sound of a charmed life realizzata nel 2010 a Praga, New York, Houston ti ha definito appunto come “fantomatico mago”. L’artista, e a maggior ragione quando esso diviene performer, è a tutti gli effetti colui che si fa beffa dell’osservatore? L’artista è sempre implicitamente un performer, anche non utilizzando la performance?
Mi piace Houdini perché lui sapeva come incatenarsi e sapeva sempre come liberarsi, in tutta la mia ricerca voglio fuggire da me stesso, voglio imprigionarmi e trovare una via di fuga, ecco perché uso la gabbia, che è si prigione, ma anche protezione e liberazione. Mi sento mago per questo motivo, voglio sempre fuggire dalla realtà, ma so che la realtà esiste. La realtà è ogni giorno, la mia vita è ogni giorno, il mio modo di esprimermi è ogni giorno, la mia mente è ogni giorno, il mio corpo è ogni giorno, l’altro è ogni giorno. L’essere o il sentirmi mago è il confrontarmi e vivere l’ogni giorno, è il rapporto continuo con l’altro. L’artista vive ogni giorno la realtà e cerca di fuggirne attraverso gesti, sentimenti, visioni o semplici segni. Per me fare una performance è cercare tutto ciò, per esempio quando ho fatto la performance Fantastic Planet nel 2016 , ripetevo all’infinito le parole Fantastic Planet, quasi fossi alla ricerca di questo fantastico pianeta… se esiste??? È un rito sciamanico, un gesto, un segno. Esiste?
Ritorniamo ai rapporti con i medium artistici. Sei un amante di cinema e letteratura? Suggeriscici un film e un libro. E con la musica? Una soundtrack per questa intervista?
Sono amante di tutto ciò che mi fa immaginare la possibile o impossibile esistenza di altri mondi, quindi guardo documentari, pochi film, tante interviste… leggo libri, ma mai partendo dall’inizio. Un film: Rat Race del 2001… superdivertente. Un libro: Lezioni Americane di Italo Calvino, ne ho 4, 5, sparsi nei vari studi. Ma anche Finnegans Wake di James Joyce. La soundtrack sicuramente è Too Much, è una canzone che avevo fatto sovrapponendo le 7 canzoni della mia vita, quindi la colonna sonora di questa intervista è la canzone della mia vita ( Eugenio Finardi sovrapposto a Michael Jackson, a Domenico Modugno, ad Aretha Franklin, a Gloria Gaynor, a Luciano Pavarotti e a Bob Dylan).
Gli Stati Uniti sono in qualche modo una terra d’adozione per te. Che rapporto hai con questo gigante dell’economia e della politica?
Era il 2007, stavo inaugurando la prima mostra negli Stati Uniti, da Barbara Davis, a Houston in Texas, avevo un grande sogno e avevo arruolato i miei Pony Express (la mostra si chiamava così)… messaggeri portatori di un messaggio. Di lì a poco, un mese dopo, mi trasferii a New York, me ne innamorai. Dopo anni considero gli Stati Uniti una seconda casa, ho la grande sensazione di un grande abbraccio, ho ossigeno che entra, certo è un paese molto complesso e difficile, ma l’importante è conoscersi per non perdersi.
Ultima domanda. Sei seduto su una sedia al tavolo di un bar di una città sconosciuta. Cosa vedi?
Ahhhh… è una situazione che mi capita spesso… Mi immagino seduto su una sedia gialla a un tavolino color legno in un incrocio tra due strade. Davanti a me persone che camminano che forse non rivedrò più, macchine che passano che forse non rivedrò più, cani che passeggiano che forse non rivedrò più, parole e discorsi di persone che non conosco, ma che mi fanno immaginare storie, …ahhh ma ricordo che ho già vissuto questo… ero in un’isola.

Federica Fiumelli