Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

martedì 6 dicembre 2016

Intervista con i fondatori di Gelateria Sogni Di Ghiaccio, #Bologna






Gelateria Sogni Di Ghiaccio ha già nel nome un sano gene per essere considerata un’opera d’arte a se stante. Dietro la denominazione si cela però la volontà di progettualità e ricerca dei due giovani direttori artistici, Filippo Marzocchi e Mattia Pajè, entrambi diplomati all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Un piccolo spazio no profit, volto alla condivisione e alla sperimentazione dei vari linguaggi cross disciplinari che vivono e si compenetrano nel vasto panorama contemporaneo. Nel cuore storico di Bologna un luogo dove dare spazio all’incontro e all’interscambio tra giovani artisti emergenti, critici, curatori, studenti, appassionati o semplici curiosi.
Consigli per la fruizione: da tenere mente e cuore al fresco.


Come nasce Gelateria Sogni Di Ghiaccio? So che dietro il nome c’è una precisa storia, fruibile sul sito. In più potreste farci una breve presentazione di chi siete e di come siete arrivati, da giovani artisti, a occuparvi anche di direzione artistica?
 
Gelateria Sogni Di Ghiaccio è un contenitore, nasce dalla volontà di contribuire attivamente alla creazione di momenti espositivi e creativi nell’ambito dell’arte contemporanea, dalla volontà di supportare il lavoro di artisti attivi e dalla necessità di costruire un luogo dove lavorare e archiviare le nostre ricerche personali.
Il nome Gelateria Sogni Di Ghiaccio è già un’operazione artistica: quando abbiamo mostrato lo spazio, ancora in fase di costruzione, a Roberto Fassone, ci ha proposto di donare un’opera per la nostra neonata collezione, che consisteva nel battezzare il luogo con un nome scelto da lui, sul quale noi non avremmo avuto nessuna possibilità di modifica. La proposta era così intrigante che abbiamo accettato e in effetti siamo stati fortunati: il lavoro di Roberto ci piace molto.
Gelateria Sogni Di Ghiaccio è animata da tre giovani artisti: Marco Casella, Filippo Marzocchi e Mattia Pajè, che condividono lo spazio di lavoro quotidianamente. Marzocchi e Pajè (i sottoscritti) gestiscono anche la direzione artistica e si occupano della programmazione e dell’organizzazione dei momenti espositivi nello spazio.
Ci sono diversi fattori che ci hanno portato ad interessarci ad una forma di direzione artistica:
Sicuramente il primo è stato il nostro desiderio di vedere da vicino e fruire il lavoro di determinati artisti, soprattutto giovani, che ci piacciono e che passano raramente a Bologna. Fino a poco fa esistevano pochissime realtà in città che lavoravano con i giovani, e anziché lamentarci della situazione abbiamo provato a dare vita ad una proposta.
Altro fattore è la considerazione dell’opera d’arte come qualcosa di estremamente fluido e non attribuito ad un’unica autorialità. Abbiamo notato che volevamo renderci mezzi attivi per la produzione di arte contemporanea, provando a sfondare i limiti del nostro produrre soggettivo e personale. Ponendo come obiettivo ultimo la produzione di un’opera d’arte e non l’esaltazione di una personalità artistica, abbiamo deciso di dedicare le nostre forze ed il nostro tempo per cercare di rendere possibile e di far esistere le opere di altri artisti, senza porre nessun vincolo personale alle scelte di produzione. Dopo i primi esperimenti in spazi non deputati (ad esempio la mostra Atomic Blondie, Festival della Divina Casa di g.olmo stuppia, tenutasi in un appartamento privato), abbiamo deciso di aprire uno spazio che potesse accogliere al meglio questo modo di agire.
Estendendo la nostra personale pratica artistica a comprendere attività di gestione e di organizzazione abbiamo inoltre realizzato quanto questa estensione faccia parte del nostro lavoro in maniera indissolubile.
Consideriamo GSG come un ampliamento del nostro modo di operare nell’arte, e come uno dei progetti più importanti del nostro lavoro.

Uno spazio indipendente che vuole dedicarsi specialmente alla sperimentazione e all’ibridazione di differenti linguaggi, è oggi più che mai una vera scommessa, e osiamo dire un atto di coraggio, avete avuto dei modelli ai quali vi siete ispirati o che ammirate? Anche esteri?

Partiamo dal presupposto che noi abbiamo sempre vissuto gli spazi d’arte come agenti temporanei, che agiscono e se ne vanno; da artisti ci preoccupiamo molto dello spazio che andrà ad accogliere le nostre operazioni, tanto da inglobarlo spesso nella stessa progettualità dell’opera che andrà ad ospitare. Quello a cui abbiamo mirato è la costruzione di uno spazio che sia adatto e adattabile a qualsiasi operazione in esso venga effettuata, che sia caratterizzato il meno possibile e che sia pulito (questa è una delle modalità in cui ci troviamo bene in un luogo), in primo luogo per lavorarci dentro ed in un secondo momento per ospitare il lavoro di altri artisti.
Prima di aprire GSG abbiamo seguito per sei mesi la direzione artistica di un altro spazio no profit a Bologna, LOCALEDUE, esperienza che ci ha formato notevolmente da tutti i punti di vista.
Se dovessimo individuare un modello che ammiriamo diremmo assolutamente quello di LOCALEDUE, dove la volontà, la carica, la professionalità e il divertimento si uniscono per diventare attività. Stimiamo molto il lavoro di Fabio Farnè e Gabriele Tosi, che hanno dato vita a una delle nostre realtà preferite, un punto di riferimento per la sperimentazione e la ricerca a Bologna.
Siamo inoltre molto interessati alle differenti modalità di operare che assumono i diversi artist run spaces in Italia e all’estero e quegli spazi ibridi che rimangono legati ai territori, agendo senza porre vincoli agli artisti invitati.
Il punto di partenza che abbiamo adottato è quello di costruire dei momenti in cui singoli artisti si confrontano con lo spazio dedicato all’esposizione, lasciando la totale libertà agli artisti stessi di gestire la situazione espositiva come preferiscono, supportando e aiutando la realizzazione del lavoro senza mai vincolarlo concettualmente.
Da artisti cerchiamo di rimanere tali e non calarci in altri ruoli, ci limitiamo a invitare artisti o curatori nel nostro spazio e offriamo loro aiuto per realizzare un progetto.
Per noi aprire uno spazio è una piccola realizzazione; più che di coraggio lo definirei un atto di volontà. La volontà è il motore del nostro lavoro.

Come si rapporta “Gelateria Sogni di Ghiaccio” rispetto alla città di Bologna, che come sappiamo, ha un preciso background culturale?

Bologna ha sempre portato con sé la sua storia, è stata una delle città più attive nell’ambito culturale italiano, dai movimenti politici alle più varie sperimentazioni nel teatro, nella musica, nell’arte e nella cultura underground.
Qualche tempo fa avevamo notato che, seppur nelle vene della città scorreva ancora sangue creativo, non esistevano molte proposte riguardanti i recenti sviluppi delle arti contemporanee né abbastanza situazioni che potessero offrire occasioni di sperimentazione ai giovani operatori del settore.
Questa situazione rendeva il territorio bolognese piuttosto fertile per la nostra idea di spazio e abbiamo deciso di stabilirci, almeno temporaneamente, per dedicarci a questo progetto.
Crediamo molto nelle potenzialità della città e negli artisti che la abitano e ci lavorano; sia da artisti che da direttori artistici cerchiamo di contribuire per alimentare la proposta culturale, le collaborazioni, lo scambio e la sperimentazione in libertà.

Che domanda vorreste che vi facessi?
Vorremmo che ci chiedessi come poter collaborare.



Intervista a cura di Federica Fiumelli per FormeUniche







Porto dell'arte. Arte in appartamento. A Bologna. Intervista con i fondatori.





Irene Angenica e Davide Da Pieve sono i due giovani fondatori di Porto dell’Arte – Appuntamento per la promozione di artisti in appartamento nato dalla volontà di promuovere artisti attraverso una serie di eventi espositivi che si svolgeranno all’interno di un appartamento abitato, nel cuore di Bologna. Un progetto-scommessa che vuole essere soprattutto un dialogo-sfida con l’artista messo alla prova con gli spazi domestici, ma anche una differente modalità di fruizione per i visitatori.
Porto dell’arte nasce quest’anno sotto l’insegna della ricerca e della condivisione. Potreste raccontarci la genesi del progetto, e perché avete deciso di dargli questo nome?

Cominciamo dal nome, apparentemente banale perché l’appartamento si trova in via del Porto, ma è stato scelto per il suo valore metaforico di luogo di scambio, di crocevia. Il nostro intento è quello di permettere ai giovani artisti di fare esperienza per poter salpare, per rimanere in metafora, verso destinazioni più grandi.
Sia tu che Davide avete avuto e avete importanti collaborazioni ed esperienze formative con istituzioni artistiche sia all’estero che in Italia. Quando avete deciso di far nascere questo progetto con la volontà di proporre arte in uno spazio domestico vi siete ispirati a qualche particolare realtà? Avete qualche modello di riferimento che sia italiano o straniero?

In realtà la volontà è un po’ quella di rompere con altri luoghi espositivi di questo genere. Noi non siamo né una Home Gallery e tantomeno uno di quei luoghi espositivi casalinghi in cui i proprietari trasformano le stanze in temporanei white cube. Ci siamo documentati sul fenomeno delle mostre in appartamento, ma è difficile ricondurre a una sola esperienza ciò che noi vogliamo fare. Per prima cosa abbiamo delineato delle strade molto precise sia critiche, sia curatoriali; selezioniamo esclusivamente progetti installativi e performativi, perché instaurano un particolare legame con l’ambiente in cui nascono. Gli artisti lavoreranno in un uno spazio fortemente connotato con lo scopo di intrecciare la loro ricerca, il loro stile, con ciò che già si trova nell’appartamento.
Essere in qualche modo uno spazio indipendente, dalle scelte di gestione a quelle curatoriali comporta una grande libertà. Come considerate la pratica curatoriale delle nuove generazioni? Avete anche in questo caso qualche persona che stimate? Che ruolo ritenete abbia la curatela oggi? E rispetto alla critica?

Siamo ben felici di vedere che sta tornando sempre più in voga la pratica di artisti che investono il ruolo di curatore per altri artisti. Questa è una pratica molto vecchia, già nell’Ottocento troviamo i primi “artisti-curatori”, ma resta un fatto molto affascinante e solidale. Noi tentiamo di lasciare un grado di libertà molto alto agli artisti, la nostra è una fucina per giovani, quindi diamo la possibilità di fare un’esperienza espositiva vera e propria: lo scambio di idee, il dialogo sono elementi fondamentali per la creazione e realizzazione dell’opera, ma, una volta effettuata la nostra selezione, cerchiamo di interferire il meno possibile.
A proposito di critica, avete deciso di non accompagnare le esposizioni con alcun testo critico, nemmeno su sito e sui social dando così importanza alla relazione che si instaura nell’atto dell’accadimento che avviene nell’incontro tra artista e spazio, e tra fruitore ed opera. Come mai?

Praticamente ti sei risposta da sola. La nostra volontà è proprio quella di creare un rapporto diretto e in qualche modo speciale tra il visitatore e l’opera esposta. Non c’è dubbio che oggi l’atto critico stia sempre più relegato alla scelta, alla selezione di un’artista, ma la nostra situazione, all’interno di un appartamento, è molto diversa. Quando apri la porta il visitatore diventa un ospite, egli varca la soglia di uno spazio privato che ha delle implicazioni e specificità che altri luoghi non hanno. Dunque accogliere le persone diventa un fatto verbale e la presentazione dell’opera giunge da sé. Nel corso delle nostre mostre non troverete dunque i classici “fogli di sala” ma un invito al dialogo; aspetto che abbiamo cercato di mantenere anche in rete, presentando il lavoro in modo diretto, solo attraverso immagini e video, sfruttando così l’immediatezza e la dinamicità che caratterizza la fruizione dei contenuti presenti online. Stiamo comunque lavorando per la pubblicazione di una raccolta di testi critici che documenterà tutte le prime esperienze di Porto dell’Arte.
Paolo Bufalini, il collettivo CHMOD e Simone Tacconelli sono stati i primi ospiti di Porto dell’arte. Che rapporto avete instaurato con gli artisti e soprattutto come definireste il lavoro che hanno deciso di presentare?

Gli artisti sono sempre nostri coetanei questo ci aiuta a creare dei rapporti paritari, si finisce col diventare subito amici. I lavori che ci vengono presentati nascono sempre da un dialogo tra noi, gli artisti e l’ambiente domestico. Paolo, Simone e il collettivo Chmod sono riusciti ad affrontare lo spazio dato modificandolo e interpretandolo secondo il proprio stile e la propria poetica. Nonostante la diversità dei lavori presentati, la necessità di sperimentare è stata continua e costante creando un buon dialogo con l’ambiente circostante.

Porto dell’arte nasce in un preciso contesto culturale. Come vedete inserita, una realtà come la vostra, all’interno di una città come Bologna, con una precisa storia e un preciso background culturale? E soprattutto perché proprio Bologna? Per necessità di studio e lavorative o perché ritenete che sia ancora una città sulla quale si possa investire e scommettere?

Un po’ entrambe le cose. Studiamo e lavoriamo a Bologna e pensiamo che questa sia una città dove i giovani sono sempre in fermento. Proporre nuove esposizioni significa voler dare una voce in più alla cultura di questa città, creare la possibilità di mettere in pratica un sfida ulteriore, per giunta in uno spazio angusto e più complesso rispetto alla norma.

Porto dell’arte si presenta allo stato attuale come un interstizio flessibile e prismatico all’interno del quale tutto (dallo spazio domestico all’opera proposta) interagisce con l’altro. Che feedback avete ricevuto dai visitatori, dagli artisti e dagli altri operatori culturali in queste vostre prime esposizioni? E che obiettivi si pone, porto dell’arte nel futuro prossimo?

Abbiamo ospitato molti visitatori, alcuni di essi estranei al mondo dell’arte contemporanea e soprattutto siamo riusciti a coinvolgere molti giovani. Secondo noi questo è un punto a nostro favore, vuol dire che stiamo facendo un lavoro che coinvolge la nostra generazione. Allo stesso modo artisti, docenti, operatori culturali e alcuni galleristi stanno frequentando il nostro spazio e, anche da parte loro, fin ora abbiamo ricevuto solo feedback positivi, ma attendiamo ansiosi anche quelli negativi, spesso più costruttivi e stimolanti! Per quanto riguardo il futuro, abbiamo già una serie di mostre programmate che sveleremo di volta in volta e speriamo che l’attenzione resti alta come è successo sin ora.

Ultimissima domanda, siete entrambi molto giovani e sappiamo bene come sia difficile lavorare nell’ambito culturale, tant’è che cimentarsi in attività di questo genere diviene quasi un atto di coraggio. Cosa vi ha portato ad appassionarvi all’arte? 

I: La mia passione per l’arte è stata graduale, non c’è stato un vero e proprio colpo di fulmine. Sicuramente le personalità che hanno influito a fomentare questa mia passione sono state tante, impossibili da citare tutte, ma se c’è un artista a cui potrei accendere un lumino devozionale quello è sicuramente Kurt Schwitters.
D: Ho frequentato una scuola d’arte già dalle superiori, e al contempo ho sempre saputo che non avrei mai fatto l’artista. Penso sia fondamentale non riflettere solo sul pensiero di un critico o di un artista, ma al contrario, è importante cercare sempre nuovi stimoli per migliorarsi e proseguire la propria strada.

Federica Fiumelli












Arcadia: Rachele Maistrello in mostra a Bologna, a Gelateria Sogni Di Ghiaccio




Rachele Maistrello, nata nel 1986 a Vittorio Veneto, si è formata tra lo IUAV di Venezia, L’ENSBA di Parigi e lo ZHdK di Zurigo, e oggi è sicuramente una delle artiste più interessanti della sua generazione.
Come affermato in una intervista per Vogue, si è avvicinata all’arte, con particolare attenzione verso la fotografia, per una necessità, un bisogno di comprendere e leggere la realtà oltre quello che normalmente si vede; l’artista fa della propria poetica una visione sdoppiata del reale. Fra i suoi riferimenti culturali e artistici: Adrian Paci, Guido Guidi, Beat Streuli, Armin Linke, Giorgio Agamben, Annette Messager e Angela Vettese, ma non solo, Bruce Nauman, ogni scritto e film di Pasolini, il giardino di Niki de Saint Phalle, le fotografie di Ghirri, Eggleston, Diane Arbus, Giacomelli, Alessandra Sanguinetti, Philip-Lorca di Corcia, certi film di Fellini e di Chaplin, e moltissima letteratura: Stendhal, Pavese, Conrad, Dostoevskij, Henry James, Dante, Flaubert, Melville, Goethe.
Gelateria Sogni Di Ghiaccio, nuovo spazio indipendente per l’arte contemporanea a Bologna, ha deciso di accogliere proprio la Maistrello per la loro prima esposizione visitabile fino al 28 novembre. Per questi luoghi, l’artista ha proposto Arcadia.
Arcadia tempo di un luogo mitico, geografia del mito nel quotidiano, è un’opera composta a sua volta da più realizzazioni interdipendenti tra loro, un dialogo tra reale e surreale, alla ricerca del significato di profondi stereotipi e simboli antropologici come stelle e galassie.
Arcadia la ritroviamo nei video. First attempt, un fondale della Via Lattea preso dalla Nasa, a metà tra rigore scientifico ed estetica patinata, viene trascinato da un ambiente all’altro, dalle periferie bolognesi a luoghi domestici, più intimi, nei quali l’artista è entrata in punta di piedi come un voyeur bizzarro e ingordo. Sono state riprese così scene nelle quali bambini giovanissimi, contrapposti alle figure per età antitetica dei nonni, parlano, ci osservano, una bambina si cimenta al piano, qualcuno, prova a suonare, sempre, goffamente, note distorte. Ma è proprio questo elemento di distorsione, d’imperfezione, di tentativo di stonatura che reca efficacia al topos di Arcadia, dove il montaggio è stato per lo più escluso e l’illuminazione mantenuta naturale. Sotto i ponti autostradali, nelle periferie, dove le strade sono echi desolati, ragazzine fanno capriole e “cazzeggiano” sonnecchiando tra la noia e l’estasi, proprio sulla scenografia mobile. L’universo si fa gioco o diviene gioco di una giovinezza in crisi, forse abbandonata, ma questa volta di scena in una “festa mobile”. Proprio come scrisse Hemingway nella prefazione della sua Festa Mobile: “Se il lettore lo preferisce, questo libro può essere considerato opera di fantasia. Ma esiste sempre la possibilità che un’opera di fantasia come questa getti un po’ di luce su ciò che è andato sotto il nome di realtà”.
In questi lavori della Maistrello il mitico e il quotidiano si fondono interrogandosi, su diversi tempi e diversi luoghi, dal dilatato all’immediato, per frammenti di visione e sospensione. Il tempo del video, quello della performance e quello della fotografia sono un unico luogo, atemporale come Arcadia, dove i dettagli, come le biglie o gli adesivi rappresentanti reazioni stellari di combustione, trovano una logica di compimento.
In Third attempt, atto conclusivo di questo dialogo, la scenografia viene smantellata e le sue componenti installate in un ambiente naturale all’alba, sulla cima di uno dei calanchi del Parco Regionale dei Gessi Bolognesi, come viene sottolineato nel testo critico: “La costruzione dell’immagine diventa così un atto fisico in cui il raggiungimento della vetta sorregge lo slancio verso l’icona”. L’esposizione si conclude così, in un atto catartico, dove l’artista si disfa dei suoi mezzi per ricongiungersi nello spazio etereo del simbolo.
Come viene definito nello statement dell’artista: “La sontuosità del kitsch, la contraddizione del tautologico, l’iconologia del periferico, sono tutte facce di una medesima ricerca: sulle persone, sulle loro private eroicità, sui loro simboli quotidiani. Il risultato si compone di opere fotografiche, collages, disegni, video e installazioni”.
Il lavoro della Maistrello, più che trasversale, consiste nell’interrogare, nell’esplorare, nello scivolare in altri mondi tramite l’utilizzo di altri mondi, che essi appartengano alla letteratura o a momenti di osservazione nati all’angolo di un bar, poco importa, quello che conta è che reale e surreale riescano a con-fondersi per dimenticare e farci dimenticare la monogamia del credere che quello che esiste sia comprensibile solo a una semplice apparenza. Arcadia come possibilità mobile, in molteplici spazi di accadimento e condivisione dove il mito risorge in attimi di quotidianità stonata.

Federica Fiumelli




Sophie Ko. Geografie temporali. Terra






12 NOV 2016
di
 
Eraclito sosteneva che il tempo fosse un gioco splendidamente giocato dai bambini, secondo Romano Battaglia invece il tempo era come un fiocco di neve, scompare mentre cerchiamo di decidere di cosa farne, Charles Dickens lo paragonava a uno dei più antichi tessitori.
Le Geografie Temporali dell'artista georgiana Sophie Ko, per la prima volta a Bologna, alla Galleria de' Foscherari, sono il tempo dell'immagine. La mostra riflette su quello che il contemporaneo soffre, e cioè la mancanza di tempo e la sovrabbondanza di immagini, due poli opposti antitetici che mirano a sottolineare un bisogno, una necessità di ascolto dell'origine, di un'essenzialità perduta sotto i fasti di un logorroico e isterico capitalismo.
Quello che si chiede di accogliere con questa esposizione, è l'ascolto, il silenzio, la materia, la terra. Questa mostra vuole essere un viaggio nel naufragio dell'esistenza, ma non in senso nichilistico, anzi, quella alla quale siamo invitati, è una visione microscopica del senso della rinascita; il senso della dicotomia, della contraddizione, di essere inizio e fine in un continuum sinestetico.
I lavori esposti, sono composti da pigmenti puri e/o da ceneri derivanti da combustioni di immagini, solo Kaspar Hauser, è l'unico acquarello dove la dimensione figurativa viene recuperata. È proprio questo lavoro che fa da anello di apertura o chiusura a questo viaggio espositivo, il mito della figura di Kaspar Hauser, è una presenza umana minuscola, fragile, in balia di un silenzioso bianco, alla ricerca di una terra perduta o promessa, il mito moderno e romantico dell'uomo avvolto dalla totalità del cosmo ci orienta a una complessità stratificata, ardua, Kaspar Hauser diviene lo snodo di passaggio, il punto centrale delle clessidra, dove il corpo si affusola per permettere alla sabbia di passare. E allora il tempo sottile, scorre, passa, corrode, sfila, scivola, scappa da noi e insieme a noi, per altri luoghi, altre mete, altri spazi dove potersi compiere.
L'uomo accende a se stesso una luce nella notte, Atlanti, Terra e Stella polare, i titoli dei lavori, aprono e introducono chiaramente al significato della poetica dell'artista, una ricerca volta all'essenza vibrante della materia, alla costituzione più intima dell'uomo, Le geografie temporali della Ko sono storie epiche che stanno all'origine della narrazione, a un passo, un soffio, poco prima della parola. Le teche verticali contenenti le ceneri si dispongono allineate una a fianco all'altro, come un'eco. Solo con Atlanti la verticalità viene abbandonata per fare posto a una trasversalità aguzza, appuntita, serrata e decisa come nei profili della Scogliera sulla costa di Caspar David Friedrich. I riferimenti della Ko sono colti, dalla pittura sino alla letteratura, la maestosità tumultuosa di queste impronte nella polvere celebrano un'intensità pari ai versi di Rilke o alle sinfonie di Felix Mendelsshon, in particolare cito l'overture Die Hebriden Op. 26.
Le geografie mutano con il tempo e vertono sul concetto di limite, quello che intercorre tra visibile e invisibile, tra noumeno e fenomeno, tra dentro e fuori dal tempo. Le geografie temporali sono esse stesse tempo, tra concetto e spirito, contengono in sé contraddizioni e pluralità, sono esse stesse immagini, combustioni, resti delle stesse, per poi divenire eleganti fenici e rinascere come nuove immagini. "Che cosa resta delle immagini quando se ne è fatto scempio? Cenere e colore." Ci invocano ad avere cura della nostra cenere, in un momento di massima usura delle immagini, qui ci si interroga sul valore più alto e più ampio della visione.
Come afferma il curatore, Federico Ferrari in Finis initium, "la cenere è quel che resta, quel che ci resta", la Ko iconoclasta e iconofila allo stesso tempo, ci conduce sul filo del paradosso proprio di ogni costituzione dell'essere.
Come cavalieri düreriani nella sala delle tredici Geografie temporali di Terra ci troviamo avvolti e sopraffatti dalla profondità di essa, come anime osserviamo la caducità propria del guardare, dell'esperire, del vivere stesso, è come avere un punto privilegiato per osservare la fine, la cessazione, la consunzione, l'abrasione, la morte, come ultimo atto. Dal fondo del sepolcro, scalzi, rimiriamo e avvertiamo il sublime, l'enigma, l'impercettibile mutare del tempo che intraducibile, si traduce difatti con le crepe tra le masse di cenere e pigmento, come rughe, come corpi attraversati da rivoli di memoria, si fanno carne e sguardo frammentato, impalpabile. Le Geografie sono corpi e lembi di materia residuale, a metà tra la fantasmagoria e il reale.
"La materia, il colore, tracciano una - iconografia dell'invisto - come ribadisce Ferrari, è come se l'artista ci affidasse una mappa con l'unica istruzione di perdersi. E come il tempo gioca con la cenere, cambiandone forme e destini, come i bambini con la sabbia, anche noi giochiamo a perderci come Kaspar Hauser, naufraghi nella cosmogonica attitudine dell'arte.










lunedì 7 novembre 2016

Brian Duffy e David Bowie: FIVE SESSION @ONO ARTE CONTEMPORANEA






È la storia di un mito, una leggenda pronta a tramandarsi da generazione in generazione, una fenice sofisticata e mutevole, pronta ogni volta a risorgere dalle proprie ceneri per reinventarsi ancora una volta, come un eco, un sussurro tra cemento e seta.

La ONO arte contemporanea in collaborazione con l’archivio Duffy propone una panoramica sul rapporto tra David Bowie e Brian Duffy, attraverso 25 fotografie non incluse nella mostra “David Bowie Is”. Brian Duffy è stato uno dei fotografi più celebri della tanto rimpianta “Swinging London” con collaborazioni importanti, da “Harper’s Bazaar”, “British Vogue” ed “Elle France”, Duffy ha saputo mescolare la fotografia, la vita, e la vita all’arte, tant’è che lo studio che aprì nella casa dove viveva con la sua famiglia ha ospitato personalità immaginifiche degli anni sessanta, da Michael Caine a William Borroughs, tra scandali e celebrità. La collaborazione con Bowie cominciò nel 1972, nel clou della carriera dell’artista, e ne vide la fine intorno al 1980. Entrambi possessori di un grande talento capace di dare vita all’immaginazione più eccentrica, entrambi con una sensibilità estetica rara, entrambi capaci di rendere iconici e immortali dettagli visivi della storia della musica, entrambi accomunati dalla follia della metamorfosi e della catarsi. A partire da un fulmine, quello truccato sul viso androgino e alieno di Bowie.

Dalle parole di Celia Philo contenute nel catalogo della mostra edito in collaborazione con LullaBit: “Se dovessi dividere il credito per quell’immagine, dovrei dire cinquanta per cento di David e cinquanta di Duffy; Pierre e mio. Credo che sarebbe una valutazione corretta. Non sarebbe mai potuta riuscire così a nessun altro. Mi sento molto privilegiata per averci lavorato insieme a Duffy e a David Bowie. Per citare Duffy: parlare di una sessione creativa è come parlare di un incontro di boxe. È riuscita così perché quella sera, nella stanza, c’era un po’ di magia. Me lo dirò da sola: è una copertina fantastica, cazzo.” A detta del figlio Chris, “Duffy era un personaggio complesso sotto molto aspetti, un anarchico marxista.” L’esempio più emblematico fu senz’altro quello in cui tentò di bruciare tutti i suoi negativi. Fortunatamente sopravvisse il registro dei lavori fatti, ma Duffy dopo il decennio consecutivo ai sessanta capí che qualcosa stava cambiando, il potere dei fotografi sembrava passato di scettro alla banalità dell’impero commerciale e la qualità lasciata lontana, così decise di abbandonare la fotografia per riprenderla trent’anni dopo. Ma solo un’anima ribelle poteva comprendere i bisogni di un uomo caduto sulla terra, per fato, direttamente dallo spazio. 

Così non solo la musica, ma anche il cinema cominciò a fare capolino nella vita del fotografo: Brian Duffy, fu invitato dall’art director del Sunday Times Michael Rand sul set de “L’uomo che cadde sulla terra”. George Perry nel catalogo ricorda così la visione di Bowie: “La mia impressione su David Bowie fu… in primo luogo che era di una bellezza fuori dall’ordinario. Aveva quei capelli di un arancione intenso, il volto pallidissimo e quegli occhi conturbanti […] Veniva da pensare: “Gesù, chi diavolo è questo?” Aveva una presenza sbalorditiva, e dire che veniva da una scuola media pubblica a sud del Tamigi!” Al contrario di come si definiva Duffy, e cioè di non essere un fotografo compulsivo, il figlio Chris ricorda che i numerosi rullini ritrovati da “L’uomo che cadde sulla terra” dimostrano l’esatto contrario. Duffy era solito portare con sé una macchina singolare, la sua preferita per gli scatti personali, una Canon Dial che funzionava con pellicole da 35 mm, una half frame, in grado di fare settantadue scatti. Scatti che hanno restituito un’immagine di Bowie, atemporale, altra, eterea, nebulosa, eterna. Un corpo mitico, sospeso e intrappolato nella pellicola, avvolto nella notte, più profonda di un luogo proibito, celebrato da un manto di finissima e pallida sabbia, come se il mito si propagasse in micro particelle dinanzi a noi. Energia condensata nello spazio millimetrico. 

Nel 1979, alla vigilia dell’uscita di Lodger, Bowie scelse ancora Duffy per realizzarne la cover. La session ebbe luogo nello studio del fotografo, che tempo prima aveva costruito una piattaforma sospesa tra le travi del suo studio per fotografare da un’altezza di nove metri. L’effetto del viso, deformato da sottili fili di nylon, unito alla ripresa dall’alto, fecero sembrare Bowie in caduta libera. Scary Monster, del 1980, invece fu l’ultimo servizio che Duffy realizzò per Bowie, forse anche per il fatto che alla fine fu data alle stampe la copertina praticamente tutta al tratto, di Bell.

Una personale questa, ricca di retroscena, che ripercorre lo stretto legame tra grandi artisti come David Bowie e Brian Duffy, e che si configura come l’ultima tappa di un progetto di riscoperta delle immagine dell’artista che ONO iniziò nel 2012 proprio con l’archivio Duffy. Mi piace pensare a entrambi gli artisti come a due “cittadini della trascendenza”, John Berger nel suo “Presentarsi all’appuntamento – narrare le immagini” ha ripreso una domanda che Federico Fellini si pose a suo tempo, e che vale la pena riportare: “Che cos’è un artista? Un provinciale che si trova da qualche parte a metà strada tra realtà fisica e realtà metafisica. Davanti a questa realtà metafisica siamo tutti dei provinciali. Chi sono i veri cittadini della trascendenza? I Santi. Ma il vero regno dell’artista è questo ‘in mezzo’ che chiamo provincia, questo paese di frontiera tra mondo tangibile e mondo intangibile.” 

È inevitabile quindi presentarsi a quest’appuntamento con le immagini di uno dei più grandi artisti del nostro secolo, capace di abbracciare atemporalmente un’idea di prismatismo assoluto.

Federica Fiumelli





 

Un interno di design bolognese. Viaggio surreale attraverso uno spazio reinterpretato





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In occasione della seconda edizione della Bologna Design Week, lo spazio dell’associazione culturale ABC ha proposto una lettura trasversale e cinematografica del design. Il progetto a cura di Fausto Savoretti, Lucilla Boschi e Fabio Fornasari è stato un autentico viaggio nel design “bolognese” degli anni ’50 e ’60: un’epoca pionieristica nei confronti delle innovazioni estetiche, e non di ultima importanza, la mostra ha voluto essere un esplicito omaggio a personaggi di rilievo come Gianpaolo Gazziero e Dino Gavina. 

L’esposizione ha raccolto pezzi unici provenienti dalla collezione di Gazziero, insieme a interventi grafici e testuali a cura del duo Boschi–Fornasari di Lif3. Questa unione è stata proprio il punto di forza del progetto: allo stesso tempo si è indagato su concetti differenti come il collezionismo, la natura dell’oggetto di design, il voyeurismo, ma tutti aventi un comune denominatore, e cioè la passione intrinseca all’atto del guardare, l’illusione del possesso tramite lo sguardo che concretizza così attraverso forme e parole. 

Quello che si è ricreato negli spazi di ABC è così a sua volta uno spazio di meta riflessione. “Le cose più ovvie sono invisibili agli occhi”, e così l’esposizione è divenuta un gioco di metafore e rimandi, un gioco surrealista che ci ha accolto in una possibile camera da letto con lo specchio – Les grands trans-parents di Man Ray. Oltre alla superficie riflettente, infatti era presente il letto dal profilo essenziale e di rara colorazione, Vanessa del 1959, pensato da Tobia Scarpa, poco più a lato invece, Broadway, la sedia tentacolare del 1993 di Gaetano Pesce, prodotta da Bernini. Accostamenti in punta di piedi in grado di rilevare l’importanza del gusto e del godimento estetico connaturato al collezionismo. 

Dalla seduzione notturna e sfocata, stratificata e velata, si è susseguita un'altra ipotesi di interno (perché di ipotesi si parla in questa mostra, di costruzioni precarie e molteplici), questa volta il soggiorno della GUFRAM con il celebre e iconico divano Bocca del 1970, ispirato al ritratto di Mae West di Salvador Dalì, e come compagna la lampada Big Shadow di Marcel Wanders dal colore rosso pastello acceso, un colore oggi fuori produzione. Di rarità sofisticata anche il tavolino Traccia, progettato da un’altra grande devota surrealista, Meret Oppenheim, un oggetto parte della collezione Ultramobile voluta da Dino Gavina. 

Bologna è ritornata invece, in questo viaggio di spazi reinterpretati, nelle ceramiche di Pastore e Bovina, fondatori dello studio Elica, un luogo di sperimentazione e ricerca per quanto riguarda tutte le diverse arti, dalla scultura, alla musica, alla moda, alla poesia e al teatro. Un interno di design bolognese, si è posto come spazio di narrazione attivo, tramite il quale il fruitore voyeur ha riscoperto l’oggetto di design come qualcosa di diverso dalla concezione stereotipata legata a un’idea di serialità asfittica. Quel che qui si è desiderato trasmettere, è la diversità intrinseca agli oggetti di origine seriale. 

Come hanno sottolineato Lucilla Boschi e Fabio Fornasari, già il surrealismo aveva capito che le cose emanano sempre qualcosa di differente, “di diverso rispetto all’eco della loro stessa visione”. “La serialità degli oggetti industriali che si caratterizza attraverso il processo che li ha prodotti (design) si è trasformata in serialità di natura narrativa (fiction)”. Se veniamo sedotti da oggetti di indiscutibile bellezza e carisma, come succede anche con le opere d’arte, un buon disco o un ottimo film, è vero che la necessità di sguardo provoca, a detta degli stessi curatori, un comportamento proprio di soggetti colpevoli. Ecco così che diveniamo “ladri di intimità” e come rei non ancora confessi ci troviamo sul luogo del delitto. 

In questa esposizione è stata forte un’idea hitchcockiana di produzione e ricezione di sguardo. Gli spazi di ABC si sono trasformati in una pellicola in bianco e nero dove noi, concreti spioni, abbiamo osservato e saccheggiato dettagli visivi dello e dallo spazio reinterpretato che altro non è che una finestra sul cortile. Un appunto recitava: “Basta che qualcosa mi significhi che qualcuno può essere là. Questa finestra, se fa un po’ buio, e se vi sono ragioni per pensare che vi sia qualcuno dietro, è già, sin d’ora uno sguardo”. 

Accanto, il libro di Slavoj Zizek, Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi è stato aperto proprio su pagine riportanti riflessioni che si scoprono essere aspetti costitutivi dell’esposizione. I curatori alla stregua di Hitchcock sono partiti da un insieme di sinthomi, motivi (solitamente visivi) che tormentano l’immaginazione, pretesti di una narrazione che accade (come la vita) solo in un secondo momento. “Hitchcock inventava storie solo per poter girare un certo tipo di scene”. 

Così negli spazi di ABC, libri, oggetti, immagini, da polaroid di Tarkovskij a Richter si sono alternati come sinthomi di una narrazione sospesa e fusa tra specchi e sguardi. Nell’ambiente si sono spartiti l’idea di uno spazio condiviso La joie est le la clef du bonheur, un vinile e un pensiero di Le Corbusier, le Empty words di John Cage e Le parole nel vuoto di Adolf Loos ancora imbustato, sospeso in aria, mai letto, ma conservato, come si conserva il non detto.

Tutto questo ha tessuto un ordito di pensieri in divenire, in vertigine. Il design si è acceso di seduzione e delittuosità, ma di una cosa non dobbiamo essere assolutamente colpevoli come ha giustamente ricordato e sottolineato Gianpaolo Gazziero, di considerare il prodotto di design come qualcosa di elitario, di distante dalla quotidianità, dobbiamo invece imparare a frequentarlo di più, a possederlo, come si fa con la bellezza. Uno sguardo dalla finestra.









martedì 27 settembre 2016

Helene Appel. Washing Up @P420





La vita silenziosa degli oggetti cede il passo alla descrizione minuziosa piuttosto che alla narrazione, per concedersi il lusso dello sforzo, della pazienza e del silenzio, propri di una rigorosa contemplazione dell’inafferrabilità del reale.


La pittura della giovane artista tedesca Helene Appel si appresta come una preghiera laica all’occhio di colui che osserva. Ci si trova come d’inganno, sedotti dalle tele granulose volte a celebrare singolarmente oggetti apparentemente banali, d’indubbio fascino, oggetti quasi borderline, non meritevoli di una superficie-palcoscenico che diviene teatro di un’epifania mondana.

Le nature morte della Appel sono ogni volta studiate, vivisezionate, descritte con una lucidità formale tipica di un freddo iperrealismo; quando il reale diviene più reale dello stesso, accade che il velo di Maya, di memoria Schopenauriana ritorna alla menti, offrendosi e disvelandosi all’occorrenza per interrogarsi e scivolare criticamente tra quei piani che da sempre la pittura dicotomicamente relaziona, ovvero l’essere realtà e l’illusione. Queste, nei lavori dell’artista, compenetrano alternando stati di trasparenza a quelli di fitta densità. Gli oggetti eletti, solo per citarne alcuni: reti da pesca, stracci, farine, acqua di mare, lavelli di cucina, pasta, fette di carne o di pane. Dal generale al particolare, dai luoghi ai dettagli compositivi. Il processo pittorico è metafora di uno sguardo al microscopio della quotidianità più derisa dall’attenzione. Elementi poveri che pongono questioni di una sostanza diametralmente opposta, questioni riccamente complesse si ergono nei confronti del medium pittorico e della superficie stessa. Nel caso di Plastic Lid, noi possiamo vedere oltre, attraverso la trasparenza del soggetto, un coperchio di plastica, ma in realtà il corpo a corpo con l’altro elemento, la tela, si presenta enigmatico e perturbante. La sensazione di vedere e scoprire la superficie è meramente illusoria. Il s’(oggetto) non esiste e tutto è superficie.

In corpi trasparenti come i coperchi, la schiuma delle onde, la rete da pesca, o l’acqua, l’artista gioca con l’elemento dell’ambiguità, disvelando e creando continuamente allusioni e illusioni sul teatro del s-oggetto eletto. 
I protagonisti delle pitture sono a tutti gli effetti corpi, visti da una prospettiva aerea, dall’alto, offertici allo sguardo con pulviscolare autenticità. Le reti da pesca, sinuose ingannano lo spazio, come fili pervasi da un elettrica sensualità amorfa, possiedono la superficie pittorica scivolando sulla tela e lavandola da orpelli inutili. La pittura della Appel non è una pittura dello spreco, il suo è un gesto di conservazione, un gesto fedele a un unico elemento per volta, per non perdere il dettaglio, la sfumatura, l’anatomia di ogni singolo interstizio formale. Una pittura che fa del gesto una tessitura di un tempo dilatato, in un contemporaneo che sempre di più si libera della lentezza vista quasi come una sconfitta dal capitalismo. 
La pittura dell’artista tedesca è anticapitalista perché si sofferma in uno spazio di riflessione autentico e originario, lì dove l’occhio passa disinteressato. Nell’usato, nel consunto, o nel naturale, quel qualcosa abbandonato dall’attenzione ci risparmia da tutto l’eccesso, da tutto l’inquinamento visivo a cui siamo quotidianamente sottoposti. La quotidianità della Appel è una quotidianità depurata, lavata via, sciacquata, ripulita, dal gesto pittorico (talvolta)visto dallo sfrenato contemporaneo obsoleto-obso-lento.

Se attraverso i momenti di trasparenza la superficie ci sembra disvelata, e sembra concedersi, in lavori come Bread o Meat, la pittura ci nega lo spazio della tela. Le fette di pane o carne occupano tutta la superficie a disposizione vietandoci così l’accesso alla granulosità della materia sottostante. Le venature e le fioriture rossastre dei pezzi di carne in un ambiguo trompe-l’oeil ci introducono in una dimensione corporea, facendo sviluppare in noi l’esigenza tattile. Le pitture della Appel sono tempi aptici, scultorei, ma nello stesso momento densi di vibrazioni umane. Gli oggetti dalla vita silenziosa, ci ricordano seppur in diversa maniera, uno dei grandi maestri bolognesi, come Giorgio Morandi, che delle cose e dei tempi lunghi di posa ha saputo regalare alla storia dell’arte contemporanea, un attimo di respiro profondo, di quiete immensa e di uno sguardo umano capace di soffermarsi lì dove solo la pittura restituisce un’essenza mai assente. Le superfici e i s(oggetti) della Appel sono presenti non solo nel momento stesso del loro accadimento ma nella prosecuzione dell’attimo, che come in un fotogramma viene impresso per sempre. 

L’artista svolge attraverso i suoi lavori, una splendida riflessione di matrice semiotica sul senso stesso del dipingere. Nella splendida raccolta di saggi firmati da Louis Marin “Della rappresentazione”, il capitolo dedicato all’ “Elogio dell’apparenza” riprende le tesi della studiosa Svetlana Alpers e del suo libro sull’arte olandese del XVII secolo del 1984 intitolato “Arte del descrivere”. In questo testo, la Alpers mette a confronto due modelli di pittura, quello albertiano, basato su un determinato tipo di prospettiva, con una volontà di narrazione e quello della pittura olandese, volto a descrivere minuziosamente un’arte composta da superfici. Scrive Marin: “È come se il mondo nelle sue apparenze, con la propria superficie, si mostrasse da sé sulla superficie della tela, si auto duplicasse per produrre la propria esatta replica sotto l’occhio affascinato e attento dello spettatore testimone: l’artista, che non ha avuto altra funzione, altro compito, che quello di essere – come avrebbe voluto Stendhal, due secoli dopo, nei suoi romanzi – “uno specchio che si porta lungo la strada”. Scrive ancora: “Ritorno alla superficie, dunque: questa sarebbe la parola d’ordine della “nuova storia dell’arte”, che troverebbe con il libro della Alpers e nella pittura olandese del XVII secolo da lei studiata, l’oggetto storicamente, culturalmente, esteticamente e teoricamente privilegiato per costruire i propri modelli operativi: la superficie come luogo ambivalente, al tempo stesso opera di pittura e manifestazione del mondo, immagine e cosa, in breve, lo spazio degli indici, delle tracce, delle marche.”

Aggiungo quindi che la pittura della giovane artista tedesca sia una pittura estremamente in linea con gli stilemi contemporanei per l’intrinseca peculiarità fotografica, caratteristica che pervade gran parte dell’arte prodotta ai giorni nostri. Le pitture della Appel sono depositi di materia viva che lavano, puliscono e tutelano l’occhio dall’inganno del caos dell’oggi. 
La superficie delle cose diviene ricerca ostinata di un presente in perenne fuga.

In mostra alla galleria P420 di Bologna dal 24 Settembre al 5 Novembre

Federica Fiumelli