Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

venerdì 11 dicembre 2015

Laura Guerinoni - TRAMA @ spazio MOO, Prato

 


Cos’è la memoria, se non l’ordito del nostro tempo?
Il tempo bugiardo, regalato, offeso, pregato, consumato, lacerato, dimenticato, annodato, annegato e amato. Il tempo perso, ma soprattutto quello che non ci diamo, perché non sappiamo aspettare.
Una sensualità e una tattilità che il tempo ha perduto. E allora occorre ritornare alla materia.
Una sosta alle origini alla ricerca della cima del filo.
La poetica di Laura Guerinoni recupera una sensibilità perduta, verso un’esistenza primordiale, delicatamente rude. Un lavoro di tradizione e traduzione, manualità e memoria si ritrovano coinvolti in un dialogo imperfetto.
L’artista utilizza materiali grezzi, in particolare modo fili, tessuti e canapa.
La pazienza e l’artigianalitá domano le superfici selvagge e incolte che si piegano al gesto ossessivo e perentorio della maglia, del legame che ci parla di una fragilità complessa per la sua semplicità.
…E tesse “trame di un canto”. Epica, calda, mediterranea.
Il lavoro della Guerinoni é di composizione e ricomposizione dell’Io con la natura, con la bios, con l’organicità dell’esistenza. In ogni lavoro è forte il richiamo a qualcosa di lontano che ci appartiene, qualcosa che si antepone a noi, un’ancestralitá ereditaria. Un odore forte.
Come i processi di mitosi e meiosi, il cellularismo intrinseco alle opere dell’artista ci apre ad un respiro forte e deciso di ritmo vitale.
La caducità dei legami e della memoria diventano una lode alla fragilità dell’esistenza, della materia che si attacca nei pensieri e sotto le suole delle scarpe esattamente come fa la vita.
Le creature marine, le sospensioni, le cellule, tutto riconduce ad un’organicità imprenscindibile, l’attenzione all’infitesimale e al microbiotico, viene celebrata in spazi altri, come quelli della galleria dove le opere si trovano a dialogare in una dimensione archetipica con gli spettatori.
E allora occorre ricongiungersi alla memoria e perdersi tra quelle trame silenziose. Tra le pagine di un libro d’artista, tra riduzioni di segno che portano all’assenza e delicate pieghe di stoffa.
Perché i tempi della memoria, sono come la Merini scriveva a proposito dell’amore per i colori:
“… tempi di un anelito inquieto, irresolvibile, vitale, spiegazione umilissima e sovrana dei cosmici “perché” del “nostro” respiro.

Federica Fiumelli










Joachim Schmid, Souvenirs

link: http://wsimag.com/it/arte/18113-joachim-schmid





Prima trovare. Poi cercare.
Jean Cocteau, (Diario di uno sconosciuto, 1952). 

Un artista accidentale. L'occidentale Joachim Schmid ha reso il fortuito senza frontiere. Souvenirs, personale italiana alla galleria P420 di Bologna rende omaggio alla matrice più consistente della sua poetica: il viaggiare. Un meta viaggio, un viaggio nel viaggio e nel medium della fotografia.
Critico fotografico, saggista, editore, già attivo nella scena tedesca dal 1980, nel 1982 fonda e autoproduce la rivista Fotokritic, un vero manifesto-veicolo del suo pensiero e della sua ricerca. Ho iniziato con una definizione ben precisa, artista accidentale. Una definizione data da John S. Weber, uno degli autori del libro Photoworks 1982-2007 che ben analizza e illustra il lavoro di Schmid e della quale mi sono servita per una ricerca personale. Basically everything is worth looking at, uno slogan che ancora di più racconta la volontà dell'autore, ops, no, autore no. Schmid punta in maniera decisiva l'interrogativo sulla questione della natura dell'autore e dell'intenzione artistica nella "post-romantica e post-duchampiana tradizione occidentale".
Lo Schmid che apprezza August Sander e Robert Frank guarda alla fotografia in una maniera del tutto personale, per alcuni impopolare, qui non c'è interesse per la bella foto, la foto d'arte, classicismi, o composizioni di ogni genere, "milioni di fotocamere, milioni di persone che producono milioni di immagini" siamo ustionati, inglobati, fagocitati, schiaffeggiati, oltraggianti, quasi beffati dalle nostre stesse immagini, che impazzano a una velocità incontrollabile. Ecco allora l'urlo della poetica che esplode come un ordigno sotto la neve: "No new photographs until the old ones have been used up".
Occorre vedere anziché guardare. L'esercizio al quale siamo richiamati è una presa di consapevolezza verso quello che già c'è, in una guerra visiva che sembra non conoscere limiti. Nessun scopo scientifico nessun scopo estetico. L'artista, anziché un collezionista di immagini abbandonate, dimenticate, gettate, calpestate, si definisce come un "gatherer" (che se nessuno conoscesse l'inglese suonerebbe come una parola per definire quasi un gentiluomo). Ma gentiluomo probabilmente lo è verso tutto quello che già esiste e non riesce a trovare una dignità di attenzione.
Schmid assembla quello di cui ha bisogno e scarta il resto. Si immerge in oceani di immagini altrui, di immagini OFF, di immagini borderline, di immagini outsider, di immagini fuori. Tutto ciò ce lo racconta la serie (che più ho amato) Bilder Von Der Straße dal 1982 per trent'anni l'artista ha raccolto tutte le fotografie che ha trovato in luoghi pubblici, centinaia e centinaia di immagini tra 25 diversi Paesi e 123 città. Le found photographies sono state montate su cartoncino. Ed ecco un affascinante susseguirsi di storie, persone, interstizi di umanità, per un’archeologia in progress dell'esistente. Le crepe, i tagli, l'usura del tempo che attraversa, e logora, consuma, infrange, spezza, divide, erode, scompone l'immagine. Tutto ciò regala un fascino unico davanti a quella moltitudine accidentale. Altra definizione che ho gradito particolarmente nel saggio di Weber relativa a Bilder Von Der Straße è stata quella di paragonare questa serie al "Salon dea Réfusés, un anti-museo dei gettati via, una spazzata archeologica attraverso le vie della vita contemporanea".
Stephen Bull, altro autore del libro, intitola il suo saggio: "l'autore elusivo". E Schmid ben rappresenta l'idea di un autore evasivo, fuggevole, inafferrabile. L'artista gioca a nascondino. Come già affermato da Weber: "Schmid fa esplodere la nozione di stile personale e autore". Archiv (1986-1999) altra serie importante in mostra. Qui Schmid recicla e gioca indagando in maniera analitica la fotografia popolare internazionale attraverso il XX secolo. Polaroid, fotografie di studio, cartoline, foto commerciali, foto di persone scomparse, immagini prese dai giornali - successivamente raggruppate e classificate con criteri di similitudine. Il progetto suggerisce una tassonomia sulla fotografia popolare senza seguire un chiaro metodo di classificazione, interrogandosi comunque su quest'ultima.
Joan Fontcuberta, fotografo, docente, saggista, curatore e scrittore spagnolo definisce il lavoro di Schmid, un lavoro di "ecologia visiva". Tra eccessi e saturazioni di immagini dobbiamo imparare a reciclare, "un recupero nel complesso del residuo". Se le istituzioni e la storia hanno da lungo ignorato certo tipologie di foto, Bilder Von Der Straße e Archiv con ironia, satira e un certo senso di assurdo reclamano e celebrano gli everyday pastimes and common desires.
Schmid curatore del trascurato, del dimenticato, dell'orfano. In Viaggio in Italia del 2015 otto stampe a inchiostro pigmentato si susseguono. Sgranate, non definite, i protagonisti che vi appaiono in forma pixelata sono i non protagonisti per eccellenza, ovvero tutte quelle presenze umane delle classiche cartoline. Ecco che allora il viaggio in Italia si trasforma in un meta viaggio, un viaggio nel viaggio all'interno della fotografia stessa. Schmid ci restituisce le note che nessuno legge. Security Check del 1985-1987, otto scatti in bianco e nero del personale di sicurezza scattate durante il controllo bagagli, ancora una volta, è palese l'interesse non per fini estetici ma per processi e mezzi. Reseinfotografie del 1984 è la raccolta delle immagini scorrevoli delle macchine fotografiche gioco totali per turisti. Come per le cartoline, Schmid pone alla nostra attenzione i meccanismi che può innescare l'osservazione critica di tipologie fotografiche scontate e sbeffeggiate come quelle prettamente turistiche, sottovalutate e banalizzate.
E infine Souvenirs, lo Schmid Flâneur, riunisce le fotografie dei cucchiaini raccolti durante 25 anni di viaggi, di aeroporti, di attese, di gusti e forme diverse. Osservando la mutazione formale delle esili posate, mi torna alla mente il Viaggiatore solitario di Tondelli, a volte si sfiorano le persone come si sfiora lo zucchero, si gira intorno ad abbracci, abbandoni, storie, vissuti, come si gira il caffè con il latte. Ad ogni modo Tondelli associò il viaggio autunnale alla perdita di voce, al recupero del silenzio. Questa mostra è un viaggio silenzioso tra la moltitudine dell'esistente, è come se l'artista ci invitasse al silenzio. Basta produrre foto. Occorre vedere quello che già c'è. Basta rumore. Un artista che mi azzardo a dire pasoliniano, con la fiducia per un progresso che è visione consapevole.

Federica Fiumelli 







domenica 1 novembre 2015

roBOt XLR8 Un prisma sonoro





Un prisma sonoro dalle sfaccettature che vincono. Questo è XLR08. Un tag che cela la forza di molti che credono in questo progetto.

Il roBOt giunto all'ottava edizione dimostra letteralmente il fil rouge di quest'anno: in accelerazione. E lo dimostrano i numeri. Oltre 21.000 ospiti tra Teatro Comunale, Palazzo Re Enzo, Palazzo d’Accursio e Fiera di Bologna, considerando anche le tante location off coinvolte (Collegio Venturoli, Dynamo, LOFT Kinodromo, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, Kilowatt, MAST e TIM#WCAP).

Il sold out è stato registrato durante la preview al Teatro Comunale e per la prima volta anche durante tutte e quattro le serate a Palazzo Re Enzo (da mercoledì a sabato). La Fiera, pur non registrando il sold out (il sabato ha totalizzato il doppio di presenze rispetto al venerdì), si è confermata come spazio all’altezza di un grande evento di musica internazionale. 160 operatori tra security, vigli del fuoco e esperti sulla riduzione del danno, tutti concentrati sui controlli per la sicurezza della manifestazione, coadiuvati da oltre 110 volontari. Sono stati accreditati 140 giornalisti, tra quotidiani e radio locali, tv e testate nazionali ma anche blog e webzine di settore. Di questi ben 40 stranieri, arrivati a Bologna da Francia, Spagna, Inghilterra e Germania appositamente per seguire la manifestazione. Un evento che ha mappato la città di Bologna tra sonorità elettroniche e installazioni artistiche, un evento-vento di curiosità e interesse verso il mondo culturale contemporaneo.

Cosa porto con me di questo roBOt? Imparerò ad andare senza mani, proprio come suggeriva l'opera esposta da Dynamo del duo di artisti Antonello Ghezzi, a inchiostro luce di wood, il messaggio rimane indelebile nel buio del tunnel. Che il mondo è complessità. Che vada al diavolo il pensiero liberale della geometria euclidea. In una dimensione altra, frattale, ci porta l'opera FRACTUS#1. I protagonisti, i solidi platonici: un tetraedro e una piramide a quattro facce formate da triangoli equilateri, la strutturalità grafica luminosa, il buio come spazio del possibile, la rappresentazione sonora. Un miscuglio di regole e imprevedibilità ci immergono nel caos deterministico.

Interessanti i lavori video di Alice Dalgalarrondo, Boris Labbé, Gianluca Abbate e Virginia Eleuteri Serpieri. In Contingent Cartographies, Fluid Identities la Dalgalarrondo partendo dalle immagini di Google Street View cerca di creare una particolarissima narrazione attorno a un vagare per immagini apparentemente randomico. La quotidianità slegata diventa invece un percorso coerente e sorprendente. Labbé intitola il suo lavoro già con una parola che ritengo fondamentale per il contemporaneo, Rhizome. Dal micro al macro tutto nell'universo è interconnesso. Interazioni, costruzioni, ricostruzioni, combinazioni. Tutto è in continuo divenire. L'artista ci immerge in mondi ciclici, dove il loop diviene sinonimo di rigenerazione e rinascita.

Microbioma del duo Eleuteri Serpieri e Abbate è una ricerca priva di forzature di senso, nessuna predeterminazione. Un oceano di immagini all'infinito. In Panaroma invece Abbate (vincitore della call legata a roBOt Buenos Aires) premiato anche al Torino Film Festival racconta le evoluzioni del concetto di "polis", un caos visivo inglobante immerge lo spettatore in ritmi fagocitanti. Si parla dei confini della città, della possibilità di fuggirne, della paura di un ritorno, pena l'esclusione.

Tanti altri artisti coinvolti, tanti nomi, come {movimentomilc}, Yuri Anacarani, Samuel Kerridge, Deep Orchestra, Fuse, Carrie Elston Tunick, Evil Twin, Francesca Fini, Gagliardi&Natale, Glenn Marshall, How to cure our soul, Iocose, Irene Fenara, Junkfood 4tet Piccinini, Matteo Amaral, Mogano w/fax, Perletta Jobin XX+XY visual, Shivkumar Kappala Venkata, Tarsi/Fauve! Gegen a Rhino. Dai dadi triangolari duchampiani di questi ultimi, dall'aleatorietà dell'opera dall'arte alla sua sospensione, come nell'installazione di Luca Pozzi a Palazzo Re Enzo.

Una spugna luminescente in levitazione elettromagnetica su un basamento ottagonale: One church one column rappresenta la capacità di un attore di assorbire a distanza l'informazione circostante. Spazio, tempo, luce e memoria storica si comprimono nel micro-spazio di un oggetto fluttuante. Ecco come ci si sente. Sospesi ci torniamo tra virtualità e fumosità nell'installazione al Collegio Venturoli di Cinzia Campolese. Nel buio di una stanza, un pannello riflettente domina l'intero spazio, situato proprio al centro. Due proiettori che ai due lati del pannello ci regalano un flusso continuo di immagini che si incontrano, scontrano e si fondono tra loro. Con il sound design di Trespur, Continuum vince la call4roBOt con la seguente motivazione: “Un'opera inedita che nella gypsoteca del collegio Venturoli ha trovato, coraggiosamente, perfetta cornice. Continuum si è trasformata in apparato scenografico, mettendosi ampiamente in relazione con lo spazio e il pubblico; un lavoro sulla luce nello spazio, molto legato a poetiche come la Light Art (pensiamo a Anthony McCall), rappresenta una possibile via di sviluppo e di mediazione tra interazione ed entertainment basata sull'esperienza sensoriale".

Nel cuore porterò sicuramente anche la serata di sabato sera in zona fiere, l'immensità di quello spazio ha saputo contenere la fantasia elettronica autunnale di numerosi artisti. "A cielo aperto" come recitava un'installazione presente, sono piovuti nella mio sentire, indelebili, SIRIUSMODESELEKTOR, Siriusmo, e Modeselektor, amici e fautori di uno dei live set che ha sbancato l'Europa in questo 2015, (vanno ricordati di non minor importanza anche i siderali visuals a firma Pfadfinderei).TRENTEMØLLER, le sue ricerche tra minimalismo e sperimentazione, un capitano di scenari spaziali, raramente in consolle, ci torna da uno che sa il fatto suo, a ritmi sofisticati ma densi e decisi. E infine i THE MARTINEZ BROTHERS, un giovane duo che apre letteralmente le orecchie, che spara dritto dritto ai sensi, un dj set da paura che non ha lasciato assolutamente delusi. Al via lo spirito della house, quello più puro, edonista e oltraggioso.

Qualcuno con la mente è rimasto sicuramente là con un #XLR8 stampato a fuoco. Perché #XLR8 è il XXI secolo, è una filosofia, sono gli artisti, è la musica elettronica, è la società contemporanea. Siamo noi.

Federica Fiumelli














Raccontare un luogo - (Tales of a Place)




Raccontare Raccontare un luogo - (Tales of a Place) diviene una sorta di metaviaggio all'interno del narrare un luogo, in un luogo come la Galleria Astuni di Bologna. Curata da Lorenzo Bruni, l'esposizione è stata inaugurata agli inizi dell'estate passata e concluderà il proprio viaggio il 7 novembre. Vi è ancora dunque tempo, per chi non ci fosse ancora passato, per vedere le numerose opere in dialogo tra loro e ideate apposta per l'occasione, degli otto artisti internazionali scelti.

I lavori sono veri e propri dispositivi pronti a innescare una serie di match di riflessione sul processo conflittuale/dialogico che la società ha da sempre affidato alla relazione tra la parola e l'immagine, tra la didascalia e la rappresentazione a cui è associata, tra la cosa e la sua funzione, tra dimensione pubblica e privata. L'approccio alla fruizione è decisamente sismico, negli spazi della galleria le opere non fanno che far transitare il visitatore tra luoghi fisici e immaginati. Tra realtà e finzione.

Oggi la tecnologia ci permette di essere in più "luoghi" contemporaneamente, la velocità non permette una sosta di riflessione concreta. Il virtuale avanza impetuoso. Si è solo di passaggio in maniera superficiale, e non si appartiene mai a nulla in maniera vera e profonda, anche per pochi istanti. La mostra mira quindi a evocare l'esperienza e l'esplorazione di un luogo, piuttosto che limitarsi a nominarlo o presentarlo con delle immagini in tempo reale. È necessario esperire il luogo da cui osserviamo il mondo, andando oltre ogni banale connessione. Qui non si tratta di mete, ma di processi, di meccanismi, le opere-dispositivo devono innescare e generare veri e propri atti di scoperta.

I disegni proposti dall'artista bulgaro Nedko Solakov mi sembrano ottimi ambasciatori del senso più intimo della mostra. In Roads non vi è certezza sulla provenienza o sull'arrivo, quello che viene messo in risalto è il momento della scelta: dove andare. Perché ci si trova lì. Ecco cosa può raccontarci un luogo. È così che i 12 disegni seppia, in bianco e nero, si stagliano leggiadri tra curve di strade immaginate, e le figure si fanno esili e umili, desiderose di andare. E ancora andare. Oltre luogo, oltre tempo. Anche le parole sono luoghi e case, disabitate, affollate, abbandonate, distrutte, ristrutturate. Ma anche abusate e abusive. Come nel caso di Degrado 4U dello storico duo Cuoghi Corsello, che per questa esposizione propone un numero cospicuo di opere, come Piatti con paesaggi, Suf! Azzurrina, 6 Giugno, Cartina torna sole,La zampa di Pea Brain. Un degrado soffice, evanescente, argentato, che accoglie ironicamente e sdrammatizza lo sfruttamento assiduo che ne fanno giornalisti e politici. Cuoghi e Corsello sanno bene cosa significhi esplorare un luogo, marcarlo, farlo proprio nell'esperienza. La zampa di Pea Brain che avvolge l'esterno della galleria riporta alla memoria lo storico personaggio, le oche sui muri della stazione di Bologna. Le tag, la fine degli anni'80', i compagni writer del periodo. Una nostalgia romantica che si riscatta con la triplice fratellanza di memoria/spazio/tempo.

Lo statunitense Mel Bochner, classe 1940, lavora sul confine di ciò che viene definito reale e cosa invece è prodotto artistico. In Measurement plant delle piante da appartamento, quindi soggetti importati e decontestualizzati per eccellenza, sono messe di fronte a una griglia, la loro crescita potrà essere monitorata e misurata. Ciò ci riporta al gesto del mettere un tacca sull'altezza di una persona, ma rimanda anche alle griglie utilizzate in pittura per la copia dal vero e la rappresentazione mimetica. Il luogo di riferimento dell'osservatore sarà quindi quello della rappresentazione e dell'arte oppure quello della natura e dell'oggetto reale?

Una riflessione su ruolo e genesi dell'atto creativo la pone Mario Airò. In L'amour fou a sostegno della tesi duchampiana circa l'illegittimità del sistema della rappresentazione, la "macchina celibe" composta dalle pagine di alcuni libri (Bambini nel tempo di Philippe Besson; Cinecittà di Tommaso Pincio; Ogni cosa è illuminata di Jonathan Sofran Faer e i Romanzi erotici del ‘700 francese) rotea vorticosamente verso lo spettatore andando a costituire un nuovo frammento di narrazione. Le pagine si susseguono in un movimento cicloide, dove le parole sfuggono al senso del tempo, in una costante ciclicità dalle tinte anche ironiche. Una plurinarrazione fuori controllo.

Altro lavoro molto interessante di Airò è Ierofania. Un raggio verticale di luce di wood solidificata fa da perno al testo When tre sacred manifests itself, ed è proprio all'arte come manifestazione che l'artista si rivolge. Ogni oggetto pur rimanendo se stesso diventa sempre qualcosa di altro. Questo il paradosso della manifestazione del sacro. La sospensione, l'attesa e l'aura di mistero si infittiscono a mezz'aria, a fiato corto, dipanando ogni laicità residua.

Antonis Pittas arricchisce la mostra con due opere, Aggregate demand, aggregate supply; Marginal costs; Labour costs tepid e We shall do as We have decided. Nella prima, l'artista greco guarda a un artista del Bauhaus, l'austriaco Herbert Bayer, il quale era solito utilizzare per le strutture espositive "narrative" un sistema a tre colori di forte impatto sull'esperienza del visitatore. Le tre sculture in ottone e acciaio rappresentano invece, ognuna, una linea differente del diagramma di andamento finanziario. L'artista rende così fisso e immutabile un movimento destinato a subire costanti oscillazioni e variazioni. We shall do as we have decided rimane una delle opere che ho preferito. Un'opera frammento che si espande nello spazio espositivo integrandosi perfettamente con il resto. Con delicata forza esplosiva. L'artista indaga il recente uso di gas lacrimogeni da parte di squadre di polizia in città come Istanbul e il Cairo. A seguito di scontri tra manifestanti e polizia, grandi quantità di lacrimogeni vuoti di diverse forme e dimensioni - oltre a pietre, legno e bottiglie d'acqua vuote - vengono lasciate sulla strada, creando un'atmosfera molto distinta, che mostra la "quiete dopo la tempesta". Pittas traduce le forme di questi resti in oggetti scultorei in marmo greco, combinandole con frammenti di testo provenienti da quotidiani e riscritti con la grafite. Da sottolineare anche che il marmo è stato estratto dalla stessa cava dei marmi utilizzati per il Partenone (suggerendo così collegamenti tra il passato e l'oggi), inoltre questi oggetti possono essere presi e riarrangiati dagli spettatori, che si trasformano così in partecipanti attivi. Foreign powers. Gli amabili resti di una civiltà si posano con "disordine pulito" tra il caos e l'odierno bombardamento dell'informazione e un armonioso e composto classicismo.

Christian Jankowsky con il video Tableau Vivant TV del 2010 lavora sul rapporto tra dimensione pubblica e privata. In quest'opera infatti, realizzata per la Biennale di Sidney, vari spezzoni di format televisivi si susseguono, famosi conduttori parlano del lavoro preparatorio intorno all'esposizione. Si conclude poi con la visione della diretta dell'inaugurazione. Si porta così all'estremo la tesi di McLuhan Il medium è il messaggio. Disvelamento. L'artista rende praticabili i luoghi nascosti e privati. E se il mondo frenetico si muove all'infinito senza sosta, da contrasto la figura dell'artista resta immobile proprio come in un Tableau Vivant.

La californiana Suzanne Lacy indaga invece i luoghi di margine, quasi outsider e poco illuminati, quasi dimenticati volutamente e marginalizzati. Secondo l'artista il luogo non può mai essere separato dalle convenzioni sociali e di genere. La Lacy è stata importante esponente di una nuova modalità di performance femminista. In Prostitution notes ha indagato sul tema della prostituzione, ha trovato le prostitute chiedendo ad amici e conoscenti, lasciandosi condurre in un altro mondo, agli angoli delle strade, in ristoranti o bar di Los Angeles.

Wherever you are wherever you go, parlando di angoli, lì dove sembra finire una delle stanze della galleria, ecco che per altezza verticale si staglia l'installazione neon blu di Maurizio Nannucci. Quella dell'artista non vuole essere soltanto una riflessione propria sul linguaggio, sulla nominazione delle cose e sulla tautologia. Si viene a creare una relazione tra lo spazio fisico e l'immaginazione di chi guarda. Lo sguardo si posa. E la mente viaggia, nel passato, in quello che sarà. Non importa. Come sottolinea il curatore Lorenzo Bruni: "Vi è la possibilità di essere un migrante giornaliero - sia a livello fisico che virtuale".

Il moto ascensionale di Nannucci ci accompagna in un altrove, verso un'altra opera di Solakov con la quale mi piacerebbe concludere. On the wing nasce come lavoro site specific per una compagnia di aeroplani in cui l’artista ha scritto testi sulle ali di 6 Boeing 737 – non luoghi per eccellenza – con l’obiettivo di tranquillizzare i passeggeri. Attraverso questa serie di 12 fotografie Solakov continua a far vivere il lavoro, trasformandolo in un racconto dedicato alla passione del viaggiare. Talvolta anche senza meta. Le parole migrano. Come noi. Vagando per luoghi che non solo attraversano ma esplorano. Luogo dunque come conoscenza e sapere, del sé e dell'altro. Luogo come lente di ingrandimento interna ed esterna. Un luogo che ama essere raccontato senza certezze o finali.

Michel Serres scriveva: "Mi piace che il sapere faccia vivere, che sia capace di coltivare; mi piace farne carne e casa; mi piace che aiuti a bere e a mangiare, a camminare lentamente, ad amare, a morire, talvolta a rinascere; mi piace dormire tra le sue lenzuola, mi piace che non sia esterno a me".

Federica Fiumelli












mercoledì 30 settembre 2015

Apparat. L'occhio ascolta, l'orecchio tocca

link:http://wsimag.com/it/spettacoli/17559-apparat



Premettendo che è stata la prima volta a cui ho assistito a un live di Apparat, vorrei cercare di tenermi il più lontana possibile da encomi o elogi stucchevoli che perdono la loro forza proprio nella troppa vanità.

Per tutta la durata del concerto però non ho potuto che trattenere la pelle d'oca, "If you feel this, you're still alive" ho pensato tra me e me arcuata e trepidante sulla mia poltroncina nel cuore della platea. Al margine tra le mie aspettative e la realtà. Nei ricordi di un film in bianco e nero qualcuno disse che la pelle d'oca è la reazione al tocco di un fantasma. E fantasmagorica la performance lo è stata.

La preview del roBOt festival di quest'anno ha voluto fare il botto, un botto verificatosi in tutti sensi, dal principio, con l'imminente sold out, sia con la standing ovation finale tra scrosci di complimenti, ed entusiasmi eccitati. Le good vibes firmate Sascha Ring posseggono come al solito una tale forza dicotomica da trascendere tutto il resto. L'eclissi dell'entropia. Se tutto va invetabilmente in frantumi, esiste un non tempo e un non luogo dove questo può sospendersi. L'ambizione e la messa in pratica di volere dar vita a un ambiente piuttosto che a un'idea. Tra miele e graffi, con profonda densità, tra ritmi lascivi e guerrieri, l'elettronica e il suono di un violino si incontrano proprio come la performance contemporanea si disvela in culla al moderno, quale è il Teatro Comunale di Bologna. Vertigini e margini. Proprio come quanto spettacolare fu vedere la scultura Arch of Hysteria di Louise Bourgeois appesa a mezz'aria davanti alla Venere del Pontormo nella mostra Fiorentina del 2012, Arte torna arte, un progetto che ha indagato il rapporto tra l'arte e la memoria, proponendo opere di artisti contemporanei che, guardando alla storia, ai capolavori del passato, utilizzandone l’iconografia, ne hanno rielaborato il pensiero.

Soundtracks live mi ha ricordato (soprattutto nei momenti vocali di Sascha) un'opera conservata alla collezione Gori di Pistoia, Melancolia II nata dalla collaborazione tra Robert Morris e Claudio Parmiggiani, conosciutisi per caso proprio a Celle. Entrambi gli artisti hanno da sempre dimostrato un interesse verso lo spazio e l'arte antica, tant'è che per l'installazione sopracitata decisero appunto di estrapolare alcuni elementi dalla Melancolia di Dürer. La ruota, il poliedro, la sfera e la campana in bronzo di Parmiggiani, che abbandonate con raffinata eleganza tra le canne di bambù sorprendono per la straordinaria bellezza solitaria, per il rintocco fragile, come passare con un dito sul bordo di un calice perdendosi in quella ciclicità vetrata.

E poi dalla soavità, al disturbo di frequenza. I suoni si infittiscono come interferenze e mi ricordano i 13 distorted TV sets del 1963 di Nam June Paik. Tra un pacato classicismo e una frizzante sperimentazione filtra la sonorità di Apparat, e come richiestomi dalla musica stessa mi sono lasciata trasportare da associazioni astoriche, affini probabilmente a qualche risonanza. Non trascurabile, l'attenzione che il musicista tedesco rivolge alla parte dei visuals. Una sonorità che si traduce in visione pura, tattile, tra superfici e forme, a tal punto che l'occhiello sul nostro sentire diviene una luna tenuta tra le mani.

Complessivamente quindi un ottimo concerto, una performance che non lascia indifferenti neanche i più scettici, che ho tentato di tenere lontano da lodi fiaccanti intrise di sentimentalismo che troppo ben si attaccano alle "prime volte". Il mio è sicuramente un arrivederci, curioso. Un musicista, Apparat, che attraverso la passione e la ricerca, cura letteralmente ogni minima good vibe. L'occhio ascolta, l'orecchio tocca.
roBOt08, ed è solo l'inizio.

Federica Fiumelli