Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

martedì 15 aprile 2014

Chiharu Shiota Silenzio e impossibilità


My Last article on Wall Street International Magazine

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/arte/chiharu-shiota_20140412102706.html#.U02JwVV_s_c

Enjoy!


REPORT - Japan, Arte

Chiharu Shiota

Silenzio e impossibilità



Gli anni della storia sembrano lunghi e lontani, ma in realtà non sono che un soffio, e gli avvenimenti apparentemente dispersi in quella dimensione della storia che è il tempo sono in realtà vicini e collegati da quel misterioso robustissimo filo che è la memoria degli uomini.
Andrea Rossi, In nome del petrolio, 1986.

La prima volta che incontrai l’opera di Shiota fu alla Strozzina di Firenze in occasione della mostraFrancis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea. L’installazione pensata dall’artista giapponese classe ’72 si chiama In Between ed è secondo me, un titolo esplicativo, un titolo che contiene appieno l’essenza della poetica di Shiota. Nei lavori dell’artista è proprio “fra”, “nel mezzo” delle cose, degli oggetti ripetuti e riproposti più volte, che ci sentiamo spaesati e attirati nei mondi di memoria collettiva.

Percorsi perturbanti e quasi claustrofobici, fitti reticolati di fili neri avvolgono e si dipanano nell’ambiente, tessendo ampi circuiti, e dentro queste reti ecco che possiamo trovare porte, fogli, lettere o valigie. Trace of memoryLetters of the thanksOther side, tutto titoli che riportano in un altrove passato, quasi dimenticato, polveroso. Con le opere di Shiota ci si trova a diretto contatto con archeologie di memoria, archivi di oggetti appartenuti a chi sa quale ambiente, a chissà quale storia o persona.

Il nero travolgente, notturno, silenzioso, teso, dei fili che legano ricordi, è rigido ma leggero, riporta esattamente a un grafismo ipnotico e sofisticato di origine orientale. Quei fili neri sono tutte le parole disciolte nell’inchiostro che si fanno confini e tratti, lunghezze e ponti, una rete web che diventa fisica, interconnettendo accessi e oggetti-luogo che diventano mondi abitabili e inquietanti. Gli oggetti luogo, non sono che link abitabili dallo sguardo.

In Other side diverse porte, o di un bianco azzerante, o consumate e logore si presentano in successione, quasi interrogandoci, mettendoci di fronte ad una scelta; se tu voyeur disperso ti troverai davanti a uno di questi varchi avrai il coraggio di tirare la maniglia e spingerti al di là? Avrai il coraggio di tuffarti in un ginepraio infinito di trame, di legami di relazioni, di incontri? Avrai il coraggio di mischiarti nell’impatto con il disordine? Di entrare nel sottobosco dell’anima delle cose? Cosa non sono queste fitte trame nere di fili se non la vita stessa, se non la difficoltà e l’intreccio che ci mantiene collegati tra il mondo e la memoria?

Nell’arte di Shiota viene resa plastica una concezione fenomenologica di matrice, husserliana, la relazione e l’esperienza con e del mondo è messa al centro della riflessione artistica. Over the continent, presentata al National Art Center di Tokyo nel 2013, vede partire da un piccolo e microscopico punto una quantità fluttuante e pulviscolare di fili rossi che si dipanano nello spazio, ciascuno legato, o meglio ancorato a una moltitudine di scarpe di donne, uomini e bambini. Oltre i percorsi, i continenti, i confini geografici, questi astronauti, o esploratori distratti, sono i nostri antenati, sono tutti o nessuno, siamo noi, o saranno altri, cono essenze assenti ma presenti nello spazio della memoria, sono percorsi stati o da compiere. Sono passi in più, nell’avanti della speranza, una tensione, una spinta verso l’oltre, ma legati a un rosso del tempo battuto e trascorso, di un tempo accaduto e tinto con il tono del sorgere più acceso.

Over the continents però appare anche come un monumento funebre, una catalogazione di vittime, un’enumerazione macabra; vittime di violenza, solitudine, abbandono, guerra? La morte giace nel ricordo teso del filo rosso. After the dream mantiene un tono inquietante e onirico, surreale e fantasmagorico, lunghe vesti pallide diafane ed evanescenti fluttuano nello spazio di labirintiche diramazioni filose. Smaterializzate e terribilmente vuote, tunnel di lattea memoria. Appartenute e abitate da chissà quale corpo, anziano o giovane, chissà quale pelle ci scivolò all’interno e perché, e dove…

Silenzio e impossibilità, in un concerto solistico, immobile e danzante nel tempo, In silence, il pianoforte e la sedia sono prigionieri, sono ostaggi di un suono in decadenza; atonale e disperato, il flusso materico dei fili è un pentagramma infranto, (note spezzate e disperate, deserte, filacciose) nel quale la luce non può che filtrare ostacolata. Gli oggetti di Shiota ci lanciano un appello nello spazio dello sguardo, chiedono quasi di essere raggiunti per essere salvati, per non essere dimenticati si circondano di neri nostalgici e puri, asettici, simmetrici e stratificati. Sono oggetti stratificati dal passaggio di sguardi e ricordi, caricati all’ennesima potenza di un isolamento forzato, sono rinchiusi nella loro presentazione come scrigni trasparenti. Questi fili infiniti danno quasi fastidio, bloccano il respiro, ostacolano lo sguardo, intrappolano e sembrano risucchiarti, sembrano espandersi come virus contagiosi.

Shiota accumula e ripete, a volte distrugge bruciando come in Waiting del 2002, un agglomerato di sedie a cui dà fuoco, ma dà fuoco anche a pianoforti, ed ecco che tra le accumulazioni e le distruzioni si annida intrepido il ricordo di Arman, e ci viene riproposto un nouveau réalisme tessuto ossessivamente. Un'eco. Il tratto dei fili infinitamente neri di Shiota si scagliano nello spazio in maniera divisionista rendendo vibrante e infinitesimale l’atmosfera, sporcandola quasi. Cosa starà guardando quella donna dalla schiena neve e nuda, spoglia e isolata dalla finestra? La chioma scura muliebre prende vita in un fitto reticolato che si espande e srotola nell’ambiente. Una femminilità ragno che dà le spalle e proietta la visione nell’asettico altrove riscritto da quei tratti di inchiostro filamentoso.

Gli ambienti di Shiota possono diventare anche scenografie abitabili, dove i corpi rimangono appesi e sospesi atarassicamente, come Matsukaze il lavoro per il Théâtre Royal de la Monnaie, a Berlino. Epifanie mistiche e corporee. Cercando una destinazione, collettivamente, con le più disparate valigie con dentro ogni sorta di ricordo, di souvenir (come nell’opera Accumulation-Searching for the destination), l’esperienza della memoria si fa concreta, e siamo pronti per partire nella moltitudine di visioni, che si fanno salto nel vuoto, da cornici-finestre (come nell’opera A room of memory) in cui quello che è stato e quello che sarà si confondono.


Articolo di:  Federica Fiumelli














Il Tè dei Matti @SpazioSanGiorgio, Bologna

Lorenzo Guaia artist
dal 22 Marzo al 30 Aprile 2014



“Ogni tazza di tè rappresenta un viaggio immaginario”
Catherine Douzel
Tè nero, verde, bianco, giallo. La bevanda che porta dietro l’aroma dell’antichità si racconta già di per sé attraverso i colori.
Colori che sanno di follia, riflessione e incontro come anche Carroll descrisse nel tè dei matti tra il Cappellaio e Alice.
Legata a civiltà orientali questa pianta magica ha ispirato il lavoro dell’artista Lorenzo Guaia che ne fa ossessione materica e grafica.
L’artista unisce la fisicità consumata della bustina da tè alla sua rappresentazione simbolica.
I lavori di Guaia consistono in tavole di legno pressoché quadrate, rivestite con decine di bustine di tè, raggrinzite, stropicciate dal tempo, dall’ocra al sabbiato all’argilla, dal marrone chiaro allo scuro fino ad un rosé sfumato, i colori formano un tappeto surreale e tattile, come un sottobosco fatato.
Ogni filtro rappresenta un preciso momento di vita, di giornate timide o memorabili, attimi di vita quotidiana. Opere che diventano così ritratti e autoritratti aromatizzati del tempo, che profumano di istanti vicini o lontani.
L’artista elegge i filtri a cellule di vita bevuta, o a pixel quadrati e medievali come frati cappuccini avvolti nel loro saio, le opere diventano così mosaici di visioni al tè.
Il profumo degli infusi, imprigionato per sempre nelle bustine, apre immagini e sensazioni trasportando gli occhi, la mente e i ricordi in spazi speziati e lontani. La bustina diventa così attrice della scena pronta a spostarsi, stringersi, piegarsi appena per lasciarsi delicatamente dipingere.
Le tazze di tè, protagoniste indiscusse dei lavori di Guaia, sono bidimensionali, iconiche, stilizzate e simboliche, dal sapore pop ma senza alcuna prepotenza espressiva. Il supporto rende il soggetto soft ed elegante, non invasivo, estremamente educato.
“La filosofia del tè è igiene perché richiede la più rigorosa pulizia; è economia perché dimostra che il benessere risiede nella semplicità piuttosto che nel complicato e pretenzioso; è geometria morale, in quanto definisce il rapporto tra i nostri sentimenti e l’universo.” 
Così scriveva Okakura Kazuko, nel “Libro del tè” nel 1906. E ancora:
“Il tè non ha l’arroganza del vino, né la supponenza del caffè e neppure la leziosa innocenza del cacao.”
Le grandi e robuste linee di contorno rosse o nere delineano prepotentemente la tazza custode di tè bollenti o raffreddati, in attesa di essere sorseggiati da labbra sognanti, sospese in chissà quale luogo, sembrano fluttuare sulla loro stessa materia, il bianco della porcellana prende così vita tra le rughe, cime e angoli dei filtri. Probabilmente Tien Yiheng aveva ragione nell’affermare che “Il tè si beve per dimenticare il frastuono del mondo.”
Filtri vintage di una memoria collettiva e singolare.
E ancora tazze capovolte e antigravitazionali volteggiano, tazze ribaltate o quasi speculari, un teatrino di composizione silenzioso e immobile nella rigidità del tempo.
Linee di confine si adagiano sul corpo sinuoso delle bustine tracciando confini metafisici e immaginati davanti al fumo bollente e nebbioso di un tè.
Ma ecco che talvolta su quel confine alla deriva, dalla terrosità dei filtri nasce con grafismo vagamente orientale e leggero, un lucido e nero albero, foglioso ed etereo, evanescente e decorativo, sospeso come i sogni nel profumo di un tè.
Il viaggio di Guaia è delicato, in punta di piedi, tra aromi funambolici e sospesi, quasi con il timore e la paura come Sydney Smith scriveva: “Che la creazione possa finire prima dell’ora del tè.”
Federica Fiumelli