Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

venerdì 5 dicembre 2014

Fatamorgana @ Galleria Astuni, Bologna


link wsimag: http://wsimag.com/it/arte/12400-fatamorgana



Perdere l'ullusione.

Perdere un'illusione rende più saggi che trovare una verità.
Ludwig Börne, Frammenti e aforismi, 1840 (postumo)
Forse un orizzonte che non puoi raggiungere è tuo per sempre, ho pensato trovandomi lì. In campo ottico fatamorgana indica la possibilità di vedere miraggi, nelle leggende celtiche fatamorgana rivestiva i panni di una strega con poteri sovrannaturali, uno di questi era appunto la sospensione.
Sull'illusione e la sospensione nasce la mostra fatamorgana alla Galleria Astuni di Bologna curata da Antonia Alampi. I lavori esposti dialogano e rimangono in bilico tra l'immaginazione e la speranza, verso nuovi desideri e conquiste, fittizie illusione e la nostalgia di una realtà passata. Le opere si interrogano quindi anche sul ruolo del potere oggi, e non solo quello politico, sulla crescente dote di creare fra le più grandi e pericolose illusioni.
Sin dall'entrata in galleria ci accolgono dei lavori, il vinile adesivo sulla vetrina dell'artista lituana Goda Budvytyte, dal titolo fatamorgana appunto. Un ibrido tra un logo e un disegno, un monogramma astrattamente concreto delle lettere FM. L'artista stessa afferma di interpretare il segno come un profilo di onde e poi di montagne. L'illusione metaforica di un paesaggio che può essere tutto come niente. Appena sulla soglia ci troviamo convogliati da un'installazione site specificper la galleria firmata Clemens Hollerer, con Noshelter, l'artista austriaco indaga lo spazio, regalandoci un senso di precaria sospensione e precaria protezione. Non vi è alcuna protezione e la sicurezza non è che l'ennesima illusione. E' questo quello sul quale vuol farci riflettere l'artista. Come un cantiere dell'immaginario alterna lunghi legni aggrovigliati bianchi e giallo fluorescente, come uno Shanghai sospeso sulla nostra percezione.
La prima impressione che si ha trovandosi all'interno della galleria è quella di un set cinematografico ai confini della realtà. Le opere dell'artista egiziana Malak Helmy si collocano a metà tra finzione e realtà, acquistando significato diverso a secondo del contesto, gioca su codici semiotici che confondono la fruizione. Al centro dello spazio espositivo troviamo la scultura della fontana total white in poliuretano, altro non è che la riproduzione in scala reale di un tipo di fontana tipicamente costruita in complessi residenziali e spazi commerciali in Medio Oriente. Il materiali impiegato è solitamente utilizzato per modellini architettonici. Questa fontana diviene una pedina fittizia di un'architettura inesistente e rimane immutata in un film dal futuro vacillante e precario.
Di stessa natura le sculture dal titolo Scene 4: a composition for gradients, riproduzioni in scala reale di diversi tipi di roccia salina realizzate in resina. Queste pseudo rocce geneticamente modificate narrano gli spesso alterati ritmi biologici e sociali della nostra contemporaneità. Gli interventi della Helmy sono spiazzanti, ci si aspetta di trovare marmo o minerali e invece non potremmo che toccare polistirolo ad alta densità o resina. Il fittizio di interroga spietato sulle mutazioni del reale. Nel video Chapter 3: Lost referents of some attraction, tre paesaggi tra il surreale, l'artificiale e il naturale metafisico trovano dialogo. Una Piana di sale, una spiaggia, e una futura centrale elettrica nucleare. Personaggi alla deriva tra attese, risoluzioni e desideri. Un'analisi bio sul paesaggio di una costa egiziana.
Su due lati speculari del perimetro dello spazio espositivo sono poste in serie, in una successione ordinata i frammenti di visioni, dei molteplici viaggi dell'artista egiziano Basim Magdy, Every Subtle Gesture del 2013 sono 25 stampe a colori incorniciate non solo da un passpartout bianco, ma da frasi in argento stampate, come incisioni e ponti di collegamento, altrovi linguistici che ampliano le possibilità delle immagini immortalate su carta fotografica. Queste foto sono parte di una grande collezione che ormai prosegue da anni, istantanei indizi, pezzi di un puzzle che probabilmente non esiste, parti di un gioco che vuole essere costruzione in bilico tra realtà e finzione. Fiori che sbocciano, universi o planetari plastificati, gabbie di volatili, diversi sguardi su diversi paesaggi, un uomo barbuto sperimenta su un giovane un apparecchio metallico semisferico all'altezza del cranio e la frase-cornice ci racconta brevemente con un tweet su carta: we wake up in dirty masks and election costumes of unknown history. E ancora, un cantiere, e alcuni operai fanno da sfondo a un altro breve ma intenso e mirato tweet: we construct intricate alibs to make up for our absent-mindedness. Magdy ci offre appunti di viaggi radicati nell'incertezza. Una natura sempre in sospensione.
Quella stessa sospensione che rende visibile l'opera di Luca Pozzi. Trinity platform del 2014, è un'installazione che utilizza neon, campi di levitazione elettromagnetica, e spugne. Tre piattaforme quadrate sono interconnesse al fine di tenere in levitazione delle spugne luminescenti e colorate. La forma dell'installazione non è casuale, difatti riprende la posizione delle tre piramidi di Giza, connessa a loro volte con la costellazione di Orione. Il lavoro si presenta ricco di sinergie cosmiche e dicotomiche. L'artista stesso lo definisce come un "rimescolamento violento di informazione tra una forma geometrica-grafica di derivazione architettonica stabilità e verificata è una spugna di imprecisabile contorno". Limitato e illimitato, definito e indefinito si ritrovano a collidere. L'immaginifico e il possibile digitale si mescola alla costruzione analogica dalla quale lo stesso digitale dipende.
Razionale e irrazionale. Tutta la mostra è costruita su quel limen dai contorni fragili e precari, illusori, il visitatore stesso si sente in balia di una vertigine-voragine ambigua tra ciò che è è quello che non è. El buro fantasma, dell'artista messicano Carlos Amorales, presenta quattro lastre incise di sette pagine di giornale prodotte nel suo studio nell'estate 2013. L'artista e il team hanno creato ad hoc articoli del tutto fittizi che tramite la collaborazione di un giornalista, di domenica mattina (giornata di minor controlli), sono stati inviati alla redazione di un quotidiano nazionale e pubblicati successivamente come veri. Il contenuto degli articoli riguarda la poesia, l'arte e la storia politica dopo il colpo di stato cileno. Gli articoli raccontano di gesti compiuti sia dal regime fascista che dalla resistenza, molto simili tra loro per la peculiare e programmatica distorsione della realtà e strumentalizzazione dei media. Ritorna in luce quindi il discorso iniziale sul potere politico e non come maggiore produttore di false illusioni.
Altro lavoro esposto in mostra dell'artista messicano è Screenplay for Amsterdam, una serie di 100 stampe in bianco e nero su carta che ben dialogano a mio parere con il lavoro di Magdy. Anche qui ci troviamo davanti a un certo numero di frammenti di visioni. Questo lavoro è una sceneggiatura preparata per il film Amsterdam. Sceneggiatura che diventa opera a sé dal film è che rappresenta un filone di ricerca di Amorales ovvero l'indagine dell'artista sulle lingue non semantiche. Segni e simboli, immagini di attori e testi sono stati mixati e creati tramite l'uso di una fotocopiatrice. Diventando il linguaggio parlato sempre più astratto la comunicazione fra gli attori si è svolta via via in maniera eminentemente corporea. Questa ambiguità ha concesso di arrivare a un'esperienza simile a "un'anarchia sociale temporanea" come l'ha definita l'artista durante le riprese del film.
Fatamorgana ci appare sfuggente, sempre in bilico fra verità di diversa natura, non si lascia concepire mai integralmente, l'illusione di un possesso totale non è che l'idea fittizia sulla quale getta le proprie radici il potere avaro. Il beneficio di essere equilibristi dell'incerto è una precarietà che oggi più che mai fatichiamo ad accettare. Rimanere sospesi come spugne indefinite in un preciso ritmo cosmico che sempre più viene modificato costa più che un passo falso. Fatamorgana è una circense in fuga, temporanea, un miraggio profondo aldilà di un velo di Maya cinematografico.
Federica Fiumelli





Marco Macellari - Paper Bag-arre @ Spazio San Giorgio, Bologna

Opening Saturday 15th November 2014 - 6.30pm
15th November - 20th December 2014



Immaginatevi che nel video della canzone "Bittersweet symphony" il cantante protagonista dei The Verve giri tra le persone e la città con un sacchetto di carta in testa proprio come lo scorso febbraio al Festival del cinema di Berlino si presentò l'attore Shia LaBeouf in occasione del film di Von Trier, Nymphomaniac. LaBeouf scelse di scrivere sul sacchetto "I Am not famous anymore", l'artista Marco Macellari con la sua poetica bittersweet riesce ad unire e collegare strati culturali alti e bassi, scegliendo personaggi presi in prestito al nostro immaginario comune che come outsider si servono di una maschera per essere altro. Che la società non aiuti ad essere ciò che siamo é ormai un tema risonante, Macellari va oltre, e servendosi di più simboli infarcisce le proprie opere di citazioni per portarci a vari livelli di attenzione.
Macellari pone al centro della sua riflessione il mascheramento-di svelamento, attraverso la negazione c'è la vera creazione, dal retrogusto nietzschiano, l'artista sceglie come oggetto di verità il sacchetto di carta. Un oggetto popolare, quasi banale, ma semplicemente complesso come vorrebbe Jung. La scelta non é comunque casuale, l'artista stesso racconta che fu importante per l'ispirazione trovare e osservare una delle strisce di fumetti più popolari al mondo, e cioè il famigerato e talvolta inflazionato Charly Brown, nato dal genio di Schulz. In quella fatale striscia l'affezionatissimo Charly indossava proprio un sacchetto di carta sul volto, tramite il quale, (divenuto un vero strumento di potere), esprimeva le proprie riflessioni filosofiche sulla vita.
Se la società non ci permette di mostrarci così come siamo allora occorre un'intermediazione, il sacchetto diventa prima cancellazione poi atto di sublimazione e di rappresentazione.
Macellari resta ancorato alla bittersweet symphony, passando da un'anima iconoclasta ad una i omofila. Se in un primo momento cancella il volto originario dei personaggi tramite l'oscuramento del sacchetto, nella fase successiva dona potere al mezzo e lo utilizza per creare nuove immagini, nuove icone, dalla potenza estetica fascinosa, divertente ma perturbante.
L'artista cura l'immagine con un'altra immagine.
Dall'immagine reale si passa tramite una metamorfosi kafkiana cartacea all'immagine ideale.
I personaggi di Macellari vivono nella rappresentazione, come sosteneva anche Klossowsky nel mondo contemporaneo il simulacro ha sostituito il principio di realtà, l'individuo non incontra mai un'esperienza autentica ma le riproduzione di una realtà ormai assente.
La fantasmagoria dell'artista conserva in seno un'impronta fortemente concettuale perché Macellari non si limita a liberare i propri personaggi, ma si serve a creare di nuovi per farci riflettere sull'esitente. Oggi infatti non ha senso produrre tanto del nuovo quanto manipolare quello che già c'è, facendo nascere a tutti gli effetti del nuovo "nuovo" rivisitato e filtrato attraverso l,esperienza della memoria individuale e collettiva.
I personaggi di Macellari come abat-jour scelgono di spegnersi per dare luce a riflessioni liberatorie. Silenziosamente rumorosi come i variegati supporti che l'artista sceglie, da teli in PVC a pelle o pannelli di legno, o casse d'imballaggio sempre in legno. Tra disegno e colori ad acrilico nascono travestimenti che la pittura certifica.
Da un simbolo popolare ad uno di registro più alto per una riflessione più profonda, questo continuo bungee jumping, fa di Macellari un flaneur estrema-(mente) elastico ed in continuo slittamento. Altra componente interessante e non di secondaria importanza é la scelta che l'artista rivolge ai titoli delle opere. Dei veri giochi di parole che ricordano i motti di spirito freudiani, lo stesso Freud affermava che il motto di spirito agisse come il sogno.
Tramite il motto di spirito infatti l'individuo può accedere con piena libertà a dei contenuti (aggressività, sessualità) abitualmente repressi dal proprio Super-Io. Ed é proprio la liberazione improvvisa di questa energia psichica "censurata" che secondo Freud scatena la risata o il sorriso in chi ascolta. Ma dietro il sorriso si cela l'abisso, e ritorna la bittersweet symphony. Una doppia anima che oscilla, accorpa e fa riflettere.
PAPER BAG-ARRE sta proprio ad indicare l'uso poetico (con tutte le digressioni che l'essere poetico comporta dal tragico al comico) del sacchetto di carta, e la mescolanza di significanti e significati.
In BEING BILL MURRAY, prima opera ispirata dalla striscia Peanuts, l'artista maschera il volto del caro Charly Brown per porre il sacchetto con la faccia di BILL MURRAY che come una vera icona pop nuvoleggia in bianco e nero in maniera virale in una carta da parati a-temporale.
Brown e MURRAY sono eletti da un'affinità comico-romantico, quasi decadente, tanto da far esclamare teatralmente:
"Datemi una maschera e vi dirò la verità." Questi personaggi Macellari sono senz'altro born to be Wild-e.
In YOUTH-OPIA vengono ripresi due personaggi di un cartone statunitense anni novanta, Beavis e Butt-head, che da veri duri, attraverso il sacchetto si disvelano, celatamente come nello stile di Macellari, si parla di grandi questioni sempre in punta di piedi. I due bulletti strong rivelano cioè un qualcosa di piùdi un'amicizia, attraverso i cuori trash sui loro sacchetti, l'artista ci fa riflettere sul complesso tema dell'omosessualità, di come può essere attraversato nell'adolescenza.
L'utopia giovanile sta nel credere di essere veramente liberi quando in realtà esiste oggi più che mai una grande difficoltà nel mostrare ciò che uno é o prova.
Prigionieri delle loro apparenze fittizie la gioventù Macellari si confessa attraverso il sacchetto di carta, un velo di Maya di Schopenhauriana memoria che attraverso la rappresentazione si difende dal mostrarci l'abisso nudo e crudo. I sacchetti di Macellari funzionano sempre come filtri e metafore. Illusioni reali anche solo nell'istante della visione.
Come non prendere in considerazione allora uno dei fenomeni giovanili più incalzanti, come la moda del tatuarsi?
In INCK, un baldo e tonico giovane, con tutte le probabilità estetiche per diventare un cantante (Trash) rap di quelli che le case discografiche sfornano oggigiorno, ha completamente coperto il proprio corpo di tatuaggi raffiguranti i protagonisti pixar MONSTER INC, timido si copre il volto quasi vergognandosene(?). INK è l'hashtag - identity.
"Amore ai tempi dell'ikea" come il titolo di una canzone del giovane gruppo bolognese gli Stato Sociale, AMORE E PSIKEA riprende uno delle statue neoclassiche canoviane più popolari alla collettività per creare un "nuovo nuovo" irriverente pop e ironico, dal gusto frizzante e vagamente duchampiano. Così racconta la canzone:
"Quando la passione incontra l'idea, quando la logistica si é fatta dea, quando la passione la incontra é amore ai tempi dell'Ikea." Psiche non vede piùamore, sugli occhi un sacchetto dell'Ikea.
Divertente parabola contemporanea che vede protagoniste molte coppie dove solitamente lui sopporta le follie di lei, tra lampade, tavolini e matitine.
Macellari si nutre ampiamente della storia dell'arte e tributa artistar come Ai Wei Wei o Damien Hirst, nel primo MY WEI WEI una mano che indica (il gesto più famoso dell'artista cinese) fora un sacchetto indicando la via da percorrere, nel secondo caso DAMN!HIRST il celebrato squalo da dodici milioni di dollari perfora il sacchetto dal pattern a pois in riferimento agli "Spot painting". L'iconoclastia é paradigma per lo shock.
ROBOPOP celebra la famelica ossessione pop nipponica, l'artista prende a protagonisti due celebri robot mascherandoli con la Brillo e la Kellogs boxes. La brillo box warholiana che fu eletta non a caso simbolo di "arte dopo la fine dell'arte" teorizzata da Arthur Danto.
Affronta invece il tema dello stalking nella serie STALKING HEADS, ricordandoci il gruppo rock statunitense e l'indimenticabile "Psycho killer" , vari personaggi dei cartoon solitamente perseguitati ritraggono sui loro sacchetti i loro "stalker" esorcizzando così le loro paure.
Ecco allora che Beep Beep indossa il suo Willy il coyote e si tramuta in un Willy Beep.
Particolarmente intesi i lavori: CHERNOBYL, HAPPY MEAL-ITARY e DUMBOMB.
Il primo lavoro é tratto dall'Unione bittersweet tra due componenti che hanno caratterizzato l'infanzia dell'artista e cioè i playmobil e la strage di Chernobyl. Un personaggio dei playmobil é visibilmente mutato a causa delle radiazioni ma nonostante questa atmosfera apocalittica indossa il proprio sacchetto da "volto comune" e sorridente per proseguire un cammino verso qualcosa di migliore.
Il secondo lavoro tratta la tematica del cibo inteso come arma di controllo e di omologazione che spinge ad obbedire fin da piccoli ad un sistema ben preciso. Il capitalismo si insidia avido e prepotente nella vita, la bio politica proposta da Foucault é qui il tema aperto dell'opera.
Il logo Obey che significa appunto obbedire ci ricorda oltre gli interventi pop di street art di Shepard Farey e in questo caso si camuffa e si estende in Obesity. I protagonisti dell'opera on sono che tante marionette dai fili invisibili, soldatini over size dall'elmetto HAPPY meal.
DUMBOMB nasce dal periodo trascorso in Giappone dall'artista, più precisamente dalla visita a Hiroshima e in particolare modo della visita al monumento funebre ai bambini morti per colpa della bomba atomica. Macellari ha voluto dipingere un DUMBo cattivo e spietato, personificando in realtà la dicotomia dell'America che ha saputo creare cartoni "idoli" amati da quegli stessi bambini che hanno reso vittime.
Vittime di tutto altro stampo è motivo compaiono in FROGMENTS e HAVE A MICE DAY, nel primo la rana Kermit del Muppet Show viene fatta letteralmente a pezzi (frog-fragments), nel secondo tutti i topi dei vari cartoon che da winner passano a fenomeni looser. I sacchetti qui sono urne gloriose che sarcasticamente celebrano un vendicativo ma umoristico Macellari.

Stimolante e frizzante Macellari non poteva che sottoporre anche se stesso alla cura dell'immagine con un'altra immagine, ecco allora l'autoritratto MAMMA MIA DAMMI 50 LIRE CHE IN AMERICA VOGLIO ANDAR.
Che non sia il timido artista quell'uomo che passeggiava tra le persone intonando come segue? 
'Cause it's a bittersweet symphony, this life
Try to make ends meet
Try to find some money then you die
I'll take you down the only road I've ever been down
You know the one that takes you to the places
where all the things meet yeah
You know I can change, I can change
I can change, I can change
But I'm here in my mould
I am here in my mould
And I'm a million different people
from one day to the next
I can't change my mould
No, no, no, no, no
I can't change my mould
no, no, no, no, no,
I can't change
Can't change my body,
no, no, no

I personaggi di Macellari possono cambiare. Non possono cambiare. Ma possono essere milioni e differenti quanti i sacchetti che saranno a disposizione di una #bittersweet identity.
Federica Fiumelli













mercoledì 5 novembre 2014

Le leggi dell'ospitalità

link: http://wsimag.com/it/arte/11900-le-leggi-dellospitalita

La questione del "fuori"




Pierre Klossowsky ci ha reso eredi di importati insegnamenti culturologici. Inevitabile non ricordare uno dei più importanti anelli filosofici del maître à penser, e cioè il passaggio dallo speculativo allo speculare ovvero la tipica falsificazione che si cela alla base della riproduzione delle immagini nella cultura occidentale. Nel mondo contemporaneo il simulacro sostituisce il principio di realtà, l'individuo non incontra mai un'esperienza autentica, ma riproduzioni di una realtà assente. Vi sono tante copie senza un originale.
Simulacro inteso quindi come trasposizione ed elemento fantasmagorico. Ed è proprio oggetto di simulacro il corpo di Roberta, protestante, atea, attivista radical-socialista e moglie di Ottavio, prete fallito, teologo vizioso, specialista in perversioni, personaggi protagonisti del romanzo triologia klossowskiano, Le leggi dell'ospitalità. Ottavio tenta di gettare ogni uomo che entra in casa tra le braccia della moglie, moltiplicando così per lei le occasioni di "peccato" in maniera di farle riconoscere la legge divina, sfidando il suo pudore e portandola al cedere. Offrendo il corpo della moglie ecco le leggi dell'ospitalità.
Un'ospitalità perversa quella di Klossowsky, che tira in ballo altre speculazioni filosofiche, da Benveniste a Derrida. Se per il primo la pratica dell'ospitalità rientra in parametri economici del dare e avere, è hostis colui che a un dono fa seguire un contro-dono. L'hostis per gli antichi romani non era uno straniero perché gli venivano riconosciuti gli stessi diritti dei cittadini. Derrida invece rifiuta questa parità reciproca ritenendo che affrontare il tema dell'ospitalità significhi porre una "questione del fuori". In quel fuori assoluto vi è una presenza giuridicamente innominabile. Non ci sono nomi e cognomi, tale ospitalità è assoluta e rompe con l'ospitalità di diritto. Riferendosi a Klossowski, Derrida nota che lo straniero diviene un liberatore, il padrone di casa ostaggio della propria soggettività, solo tramite una presenza estranea può porsi in una condizione di ospite. Il corpo di Roberta viene donato agli ospiti per essere meglio posseduta dal marito, il quale si logora per possederne appunto l'interezza. Gli oltraggi subiti alimentano sdoppiamenti e rovesciamenti, simulacri di una natura che si nasconde. Ottavio incita la sposa a commettere adulterio perché vuole scoprire le vere identità della sposa, pensando di conoscerne solo un'identità apparente, le pluralità di nature si manifestano solo tramite il contatto con lo straniero.
Le leggi dell'ospitalità è il titolo della mostra che ha luogo alla galleria bolognese P420 fino al 15 novembre a cura di Antonio Grulli. Il titolo della mostra ben eredita tutta la complessità che di fatto appartiene alle opere esposte. Sei artisti, una collettiva che giovani e mid career legati per nascita o formazione alla città di Bologna. Una scelta quindi che diventa cerniera e dialogo fra varie generazioni. Eva Marisaldi (1966) e Italo Zuffi (1969) fanno parte delle generazione degli artisti emersi negli anni Novanta, una scena così influente da far parlare Obrist di "miracolo Bologna". La mostra quindi tiene conto di un certo background artistico culturale bolognese che ha visto intellettuali importanti come Daolio, Pozzati, Gianuizzi e l'Alinovi; proprio il pensiero di Francesca, basato sugli studi dell'avanguardia dada, surrealista e situazionista, saranno fondamentali per tutta l'arte e la cultura realizzata a Bologna. Ma anche alcuni luoghi furono determinanti, come la Galleria Neon, l'Accademia, e negli anni novanta il Link, poi lo spazio Raum e l'associazione Xing, all'interno del quale si sono esibiti Riccardo Baruzzi (1976) e Cristian Chironi (1974). La mostra include infine due giovani artiste legate ancora al mondo accademico, come Costanza Candeloro (1990) e Giulia Cenci (1988).
L'esposizione si apre proprio con Alice's Adventures Undreground, del 2014, una serie di nove disegni a matita su carta della Candeloro. Dopo aver studiato all'Accademia di Belle Arti di Bologna sta terminando i suoi studi presso l'Head di Ginevra. Acuta osservatrice dell'immaginario, lo puntella di lucide e interessanti riflessioni. Il lavoro dell'artista si concentra sulla frammentazione e destrutturazione delle forme narrative, dei libri, dei sistemi educativi. Alice's Adventures underground era il titolo originale del manoscritto di Alice's Adventures in Wonderland. Alice da tramite per un fuori, Alice come frammento, come passaggio e come variazione. Poiché le cose in realtà non sono mai come si presentano. Come non ricordare l'esperienza radiofonica di Radio Alice nata sul finire degli anni Settanta. Un fuori che si concretizzò on air. Decisamente poco elementare tra le righe di una pagina di quaderno riecheggia "cattiva maestra televisione". Se l'artista mantiene un segno leggero a matita, sicuramente la forza contenutistica ne fa da contrappunto e rende estremamente speciale e pungente il lavoro della Candeloro. Un contrappeso di elementi espressivi, tra forma e contenuto.
Sempre nella prima sala troviamo anche un lavoro introduttivo ad altri pezzi che troviamo esposti nella seconda sala, un acquerello e succo di mirtillo di Riccardo Baruzzi. Ordine 1, 2, 3 e 4 infatti sono delicati segni e tracce, leggiadri matita e pennarello e gouache su calicot e acrilico su carta. Toccate e fuga nell'istante di una memoria. Lavori a più piani e strati di visione. Le tracce di figure o oggetti si perdono tra semitrasperenze, una prospettiva illusoria e velata. Lo spazio di fondo, sempre che un fondo ci sia, è un salto nel vuoto. E i segni da questo vuoto emergono sul filo, a galla, dal profondo della superficie. Una pittura destrutturata, smontata e scomposta, come una frattura o un gioco di un bambino. C'è in Baruzzi un'analisi delicata ed elegante dell'immagine, quasi evanescente. Nella stessa sala, Eva Marisaldi con Livingrooms, sceglie di esporre un telo dipinto a spray con l'immagine di una sedia da studio psicanalitico, un grande bicchiere, delle statuette, delle piantine in plastica, uno specchio e una foto in cornice. Tutto sospeso in un'atmosfera perturbante. Ci sentiamo come Alice sospesa tra frammenti in procinto di attraversare lo specchio. Folle.
Accanto al lavoro della Marisaldi, Chironi con Broken English: step 3 Connections or set, del 2013. Differenti tappeti poggiati al muro in moto ascensionale, differenti tessuti, saranno distesi uno sopra l'altro invece quelli nell'ultima sala. Il primo tappeto "recita" la scritta WelcomeBroken English: step 3 fa parte di una mostra tenuta al museo MAN, una rizomatica performance in più step. Il termine indica le varianti incerte della lingua inglese, terminologie perlopiú coniate da soggetti non di madrelingua. E' più forte una società che possiede una sola o più lingue? Da questa riflessione è scaturita la mostra Broken English, dove elementi del linguaggio diventano immagini, oggetti, suoni e cose. L'idea portante è sicuramente che non nella purezza bensì nell'intreccio, che sia di lingue, tecniche, mestieri o usanze, si cela la vita. La vera vita. Commistione e contaminazione le "c" di Chironi.
L'ultima sala accoglie altri due lavori della Marisaldi, il video Steadygirl del 1996 ci accoglie con suoni zen, girato all'interno di Palazzo Albergati a Zola Predosa, l'artista visita e penetra il luogo con il proprio corpo-occhio divenuto videocamera. Tra il mistico e il surreale ancora per una volta ci sentiamo Alice. Lo sguardo si perde così tra scalinate, affreschi, sedie, un non-luogo autentico. Fantasmagorico e simulacro mimetico. Coverage del 2014 sono invece progetti per tappeti, stampe su alluminio di immagini prelevate da Google Earth; la Marisaldi dunque adotta una trasposizione flat per tutti quei profili di luoghi. Operazione inversa e opposta invece fa Italo Zuffi con Profilato Villa, se quello che ci appare dinanzi può sembrarci un oggetto di design, non ci fermiamo allo specchio ma lo attraversiamo e troviamo così un rovescio dell'ordinario. Profilato villa non è che la resa tridimensionale di una pianta di un edificio palladiano. Un perfetto estraneamento Carrolliano.
In risposta ai suoni zen di Steadygirl ecco provenire da sette baccelli in ceramica dei fischi. Gli ignari di Zuffi non sanno o meglio non vogliono fischiare in maniera corretta. Straniamento e perturbamento. C'è sempre qualcosa che sfugge, qualcosa che fugge alla percezione, alla possessione di una totalità, proprio come ci ricordava Klossowsky. "Chiudono" questa visita ermetica e complessa che richiede sicuramente tempo e attenzione, i lavori della giovane Giulia Cenci che ha il merito di aver creato negli ultimi anni uno dei progetti più stimolanti (attualmente in giro) insieme ad altri colleghi dell'Accademia "Interno 4" in cui vengono coinvolti artisti italiani e stranieri nella realizzazione di mostre all'interno della loro abitazione, ma non solo. Un progetto sicuramente in linea con la filosofia del'"ospitalità".
La ricerca della Cenci è prevalentemente scultorea, difatti nei due lavori esposti utilizza materiale che richiede di essere lavorato e maneggiato come poliestere, polvere di marmo e argilla, plastica. In Almost Invisible una sagoma di sedia, che fa da eco anche se in maniera totalmente differente a quella della Marisaldi, è poggiata al muro anch'esso bianco. Un'assenza presente. So untouchable. La Cenci sceglie due interventi estremamente ruvidi, vibranti e leggeri, dei bianchi ombrati dall'invisibilità indivisibile dell'essere. Bombardati come d'uso dalle vorticose e fameliche successioni di immagini senza respiro Le leggi dell'ospitalità ci rende ospiti di un tempo che da troppo tempo non ci concediamo.
Federica Fiumelli












Nawras Shalhoub


link: http://wsimag.com/it/arte/11809-nawras-shalhoub



A piece of wall for you mon amour






Figli dell'epoca
Siamo figli dell'epoca,
l'epoca è politica.
Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.
Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.
Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
in un modo o nell'altro politica.
Perfino per campi, per boschi
fai passi politici
su uno sfondo politico.
Anche le poesie apolitiche sono politiche,
e in alto brilla la luna,
cosa non più lunare.
Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.
Non devi neppure essere una creatura umana
per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a uno rotondo o quadrato.
Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano e i campi inselvatichivano
come nelle epoche remote
e meno politiche.

(Wislawa Szymborska)
Per introdurre il lavoro dell'artista palestinese Nawras Shalhoub mi sono servita delle parole di un'altra grande poetessa. Per parlare di poesia è necessaria la poesia, e Shalhoub ci parla poeticamente attraverso le sue opere. Politicamente.
La (galleria+) Oltredimore di Bologna dal 2 ottobre al 22 novembre presenta la prima personale in Italia dell'artista. Un'antologia di lavori in cui l'artista esplora la questione del dolore, venendo da un paese in conflitto, non ha avuto altra scelta che quella di essere in contatto con la sofferenza, sia fisica che morale. La sua ricerca artistica, quindi è il mezzo per entrare in contatto con il dolore, proprio e degli altri, un filtro, un catalizzatore per trasformarlo in energia.
Nato nel campo profughi palestinese di Yarmuck in Siria nel 1974 rientra con la sua famiglia in Palestina solo nel 1994 e rimane nella Striscia di Gaza fino al 2001. Diplomato alla Scuola di Belle Arti di Strasburgo nel 2007 vive ora in questa città. I suoi lavori, che abbracciano tanto la pittura quanto il video, le installazioni e la scultura sono stati esposti anche in Corea, Emirati Arabi Uniti, Francia e Palestina tra il 2008 e il 2013.
La mostra si apre con il lavoro dal mio punto di vista più intenso, A piece of the wall for you mon amour, un'installazione di sette mattoni di cemento con del filo spinato. Un'opera intrisa di poesia, di una bellezza che crea dolore, semplice tanto quanto complessa, che richiede riflessione e sosta per meglio osservarla. Quest'opera manifesto di Shalhoub racconta silenziosa ed elegante il modus operandi dell'artista. Il taglio grossolano, grezzo e pesante del cemento, la scelta di un mattone, che rimane dettaglio di un muro più mentale che fisico, avvolto da esili fili di metallo spinato, leggeri e ancorati; alcuni prendono nonostante tutto, la forma di un cuore. Un gesto quasi elementare, primario, lo sguardo di un uomo si concilia al gesto che potrebbe essere quello di un bambino. La dicotomia che contraddistingue la poetica di Shalhoub è disarmante. Leggerezza e pesantezza. Una precarietà fragile quanto bella.
Lo stesso artista dichiara: "La cosa migliore di una guerra è la sua fine: la fine dell'occupazione, la fine del dolore, la speranza che il domani arrivi senza bombe e senza morti, senza proiettili e senza muri; i muri non restano nella storia, forse durano qualche decina di anni ma non di più, chimere nell'esistenza di un popolo. Il muro di cemento e il muro nelle menti, non si nasconde, è visibile palpabile e lascia delle tracce nei corpi e nelle anime; un muro con il quale si può convivere, che si vede quando ci si abita di fianco, che ci impedisce di andare a vedere i nostri alberi e i nostri vicini, a volte la nostra famiglia, frontiera interna; un muro che si può scegliere di distruggere, con il quale si può scegliere di non convivere, bisogno di liberazione e di grandi paesaggi; per raggiungerli, immaginiamo un "dopo i muri". Eccone un pezzo, un regalo per te, amore mio, un regalo per tutti."
L'artista ci lascia quindi un dono importante, un dopo i muri, un'aperta riflessione di frontiera, difficoltosa, spinosa ma speranzosa. Un mattone che è inizio e seguito, oltre l'invisibile. Un mattone che da orpello diventa appello. Urgente e struggente. Not another brick in the wall.
Harp, è altrettanto poeticamente intensa. Una scultura leggera, appesa, sospesa, in ferro battuto e filo spinato, con corde e un casco militare. Una sinfonia tagliente e lacerante in bilico tra l'orrore della guerra e l'energia vibrante e melanconica di un'arpa ancestrale. Un suono vellutato dei cannoni riecheggia nelle memorie dorate di Shalhoub. Dorata come l'atmosfera tra l'onirico e il reale della fotografia in stampa digitale dedicata a sua figlia Sarah. Sarah davanti al muro, Sarah che si nasconde all'obiettivo con il muro che fa da limbo e ritorna evanescente nei lavori dell'artista. Un muro che separa in due metà speculari l'immagine. Tra l'oscurità e la doratura, un'atmosfera rarefatta quasi in procinto di sciogliersi come cera al sole. Delicata ma profondamente oscura, una barriera che può essere affrontata solo con un gesto di una bambina. Un sorriso.
Quella cera la ritroviamo non a caso fisicamente utilizzata per la scultura La guardienne des oliviers. L'artista impiega cera d'api, alberi d'olivo, terra e vetro. Materiali in trasformazione, che vivono, profumano e sono caduchi. Caduchi di una bellezza messa sempre a repentaglio dall'orrore. Il dolore e la sofferenza però si trasformano in un'installazione aulica, una donna dorata, giace accovacciata e seduta, scolpita nel tempo della memoria. Severa e scheggiata osserva e fa da guardia a un tumulo di terra. L'atmosfera è rara e sacra. Una perfetta armonia, oltre alle piante di olivo sembra essersi radicata in un'attesa atemporale. Le sottili filamenta di vetro, ritraggono uno sguardo di luce, mischiandosi alla terra, all'origine, e sembrano dare vita alla stessa donna di cera.
Monter leger, installazione site-specific pensata per la galleria, prevede una scala dapprima larga poi sempre più stretta. Di legno e delle asticelle vetrate, fibre metafisiche e metafore di un'ascesa complessa e probabilmente impossibile. Siamo sempre sulla soglia con Shalhoub, risospinti alla deriva. Tra amore e sofferenza. Vos dieux ne sont pas dans mon sang, opere che l'artista espone su tronchi di legno, facendo sembrare l'insieme un'unica installazione. Couple perduLe reve perdu de mon filsRien qu'un biberonreve survivant, la vie est belle avec tout le bourdel, sans larmes, sans issue.
Tra scritte e silhouette di bambini sotto al mirino, l'artista utilizza proiettili, cera d'api, miele in acquari dalle dimensioni variabili, l'amaro e il dolce si fondono in uno stato conservativo di memoria precaria. L'utilizzo di un materiale inconsueto come il proiettile è decisamente suggestivo, e ci riporta alla realtà dalla quale Shalhoub proviene. Fossili di slogan ben precisi come la vita è bella nonostante tutto il caos. Accumulazione di spari nell'occhio di chi guarda. La moltitudine di proiettili raccolti diventano pixel inesplosi e in alternanza di vuoti e pieni definiscono ombre, sagome e profili di un'identità di un popolo.
Shalhoub eredita dall'arte povera e concettuale l'attenzione per i materiali, l'energia e per le idee, la fusione di istinto primordiale e oggetto dal nouveau realisme, la poesia di Gonzalez-Torres che da un intimismo universale va al singolare, e al misticismo di un primo Kapoor. Interessanti sono anche le due tele presenti in mostra dai titoli entrambi riferiti alla pioggia, due acrilici su tela,J'attends la pluie e Pluie de la mer in memoria di Vittorio Arrigoni, l'attivista giornalista italiano sostenitore della soluzione binazionale in merito al conflitto israeliano-palestinese, ucciso da gruppo terrorista. Un pacifista che amava concludere sempre i suoi articoli con "stay human".
Shalhoub ripropone nelle due tele un colore informe e graffiato, disperso e quasi strappato, aspettando la pioggia in un flusso di memoria liquido. La mostra termina nell'ultima sala con un video intitolato Jerusalem avant la priere del 2014. E in una paziente e silenziosa attesa si consuma la visione. Se dapprima ci troviamo dinanzi a un muro di candele di cera, portando tempo a noi stessi ci accorgiamo che lentamente, questo impedimento decade, sciogliendosi e mostrandoci una Gerusalemme dal sole calante e sopito, in un'atmosfera dorata e sacra.
Una chiusura video che fa da cerniera, ripercorrendo l'intera poetica di Shalhoub, uno sguardo genuino, labile, dicotomico, prezioso che si disvela con il movimento del tempo liquidamente come cera, pungente come proiettili e filo spinato, raffinato come l'unione di amore e dolore. Opere caduche che pur restando umane ci restituiscono l'eterno. Un interstizio al miele tra lo sparo e il suono di un'arpa.
Non c'è vita che per un attimo non sia immortale.
La morte è sempre in ritardo in quell'attimo
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(Wislawa Szymborska)

Federica Fiumelli