Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

lunedì 30 dicembre 2013

Jean-Paul Bourdier. Vivere, soltanto vivere

Ecco il mio ultimo pezzo pubblicato 
sul Wall Street International Magazine:


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Jean-Paul Bourdier

Vivere, soltanto vivere

Jean-Paul Bourdier

“Vivere soltanto vivere, in quel momento in quel luogo. Senza mappe, senza orologio senza niente. 
Montagne innevate, fiumi, cieli stellati. Solo io e la natura selvaggia.” (Into the Wild)

Nella natura selvaggia, tra paesaggi amari e infiniti, quasi metafisici, alla De Chirico, si perdono e si stagliano corpi colorati, così impastati di colore che sembrano nascere dalle polveri corpuscolari dell’artista indiano Kapoor. Nelle opere di Jean-Paul Bourdier la fotografia si mischia alla bodypainting più sofisticata e teatrale, quasi ricordando una delle perfomance Les gens de couleurdella compagnia francese poliedrica, Ilotopie.

Bodyscapes è il titolo di una delle serie fotografiche più stupefacenti e famose dell’artista, ed è infatti proprio di paesaggi corporei di cui si parla, in questi scatti infatti il corpo fisico dei personaggi si mischia, si ibrida, si confonde alla natura selvaggia e aspra. L’artista è docente di disegno, design e fotografia al dipartimento di architettura alla UC Berkeley in California. Fotografie rigorosamente analogiche che si discostano dall’uso di Photoshop (precisazione presente sul sito ufficiale dell’artista), formalmente perfette, incantano da subito l’occhio per la perfezione armonica e cosmica che emanano.

Tutto è squisitamente proporzionato e in linea, un meticoloso set da tableaux-vivants viene ricreato tra gli anfratti dei paesaggi più sconfinatamente vasti e incontaminati da ogni soluzione architettonica artificiale. Specchi d’acqua che si perdono all’infinito, cieli talmente tersi da spiegarci l’immenso in una pennellata di cielo. E poi sorgono, emergono i corpi, riflettendosi, in maniera speculare, con i corpi nudi ma ricoperti interamente di colore, talvolta metallici da rendere la muscolatura qualcosa di talmente perfetto da non poter essere colto.

Sono uomini, donne, probabilmente tribali, dalle usanze ancestrali, il sesso non diventa che metafora dei pigmenti colorati. Seni, cosce, piedi, si confondono a pietre, deserti e rami, ma anche ghiacciai e montagne rocciose. È questione di rime baciate, Bourdier diventa poeta dello sguardo, accostando le curve dei fianchi femminili a insenature terrose, o i seni e i sederi alle curvature della terra. Viene quasi la voglia di palparli questi corpi, viene la voglia di strusciarsi a terra, di mischiarsi e mescolarsi all’origine. Corpi-paesaggio che sono origini, saltano, si allungano, rimangono sospesi tra la terra il vuoto e il cielo, mimetizzandosi a esso perché tinti di azzurro o blu.

I personaggi sembrano danzatori cristallizzati nell’attimo dell’eternità dell’infinito naturale, esiste un ritmo biologico armonico in questo accoppiamento. Perpendicolari o piegati, i corpi sono cadenza e apostrofi, scandiscono il colore del silenzio nel cuore delle terre selvagge e indomabili, cercando di non essere trovati, tra le loro solitudini ampie. Ed ecco che un corpo dal bianco farinoso e desertico e raggomitolato su se stesso sopra un enorme stesa di sassi rotondeggianti e sinuosi biancastri anch’essi, la spina dorsale diventa un solco roccioso, un scalata di vita, fragile ma determinante, da percorrere a mani nude, o in punta di piedi, perché l’eco di una parola può far vibrare quell’essere luogo. E la carne diventa luogo e silenzio come la terra madre, si arricchisce di colore per aspirare al rito, un ritmo primordiale, antico, che esiste da prima di tutto.

Rossi, gialli e blu, muscolature umane, disciolte a un sole cocente, si plasmano rassegnate e sopite in una cavità desertica naturale, la natura beve, inghiottisce la carne, sembra non esserne sazia, e l’uomo si aggrappa alla pelle del mondo con i palmi della mani colorate. A volte l’artista sceglie di far emergere dal suolo solo alcune porzioni di corpo, come busti o teste completamente di bianco, un bianco che azzera e cancella le identità, anche i capelli di imbiancano e si mischiano con l’organicità di qualche nuvola all’orizzonte, sono vanità statuarie, immobili ma caduche, metafisiche.

Accoccolati in un manto di neve, talmente alla deriva del loro essere altrove, i corpi si rannicchiano in un gesto di infinito avente per sfondi tanti esili rami secchi, neri, partiture di inchiostro solitarie. E poi la nascita di un corpo brillante, e rosso da far male, da una frattura naturale, è questa l’origine del dolore? I corpi disposti nel teatro di Bourdier sono nascite continue e perpetue, corpi che si dilatano fino a farsi penetrare dal cielo o dall’atmosfera, tesi e allungati, in tensione evolutiva verso un compimento che raggiunga l’orgasmo cosmico, sempre sotto una luce pulita e abbagliante, di quella perfezione formale cara all’artista, lucida e plastica. Viene celebrata la bellezza, selvaggia, ribelle, colorata e terribilmente immensa.

Ma che ne sappiamo noi dell’immensità? Tu che stai leggendo queste righe, tu che ne sai dell’immensità? Il vento saggio sibilante tra quelle montagne rocciose e tra quelle insenature di corpi blu o gialli sembra rispondere: "…tu chiedi alla polvere".

“Lei apparteneva alle colline, ora, e le colline l'avrebbero nascosta. Dovevo lasciarla tornare alla loro solitudine, lasciarla vivere con i sassi e con il cielo, lasciare che il vento giocasse con i suoi capelli fino alla fine. Era quella la sua strada.”
Dal libro Chiedi alla polvere di John Fante.

Articolo di:  Federica Fiumelli












mercoledì 18 dicembre 2013

Willow. Bianco, Rosso, VERDI Fino al 21 Dicembre 2013 presso Spazio San Giorgio, Bologna


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Willow. Bianco, Rosso, VERDI

Fino al 21 Dicembre 2013 presso Spazio San Giorgio, Bologna

Willow. Bianco, Rosso, VERDI

In occasione del bicentenario, l'artista neopop Willow dedica un omaggio al grande Maestro Giuseppe Verdi che ha saputo avvicinare la lirica e il teatro in un modo nuovo al grande pubblico.
Un poeta, un patriota del Risorgimento che ha veicolato un ideale, un pensiero attraverso la sua opera in un periodo in cui l'Italia era alla ricerca di una vera e propria identità di Paese. Un uomo semplice, un italiano conosciuto e riconosciuto in tutto il mondo e di cui ognuno di noi dovrebbe essere fiero di esserne conterraneo.

La cifra stilistica che Willow propone nelle sue opere sa di ottimismo e colore. Di stile Neopop, le tele che ci regala sono virus di gioia e sorrisi, antibiotici contro la pioggia, il malumore e la tristezza, sono esplosioni alcoliche inebrianti, spumeggianti e frizzanti, un continuo cin-cin visivo, e i personaggi e le forme che popolano la superficie sembrano tante bollicine di spumante. It’s always a party, a pop party!

Lo stile di Willow mescola grafica, design e fumetto, i personaggini si elevano a icone pop, semplici, dirette, immediate. Cuoricini, lettere, smile super positivi invadono da veri combattenti il nostro sguardo, che ne rimane rallegrato e sorridente. Far sorridere lo sguardo, ecco una mission importante. Guardando le sue tele si ha l’impressione di trovarsi in una bolgia colorata di tanti piccoli esseri comunicativi, con cuori rampanti e vogliosi di amare. Willow ci regala un momento di relax e gioia. Il suo grafismo leggero ma conciso, anche nei bianchi e neri, ci trasporta in un’atmosfera di tutto pieno, di un caos fumoso, una metropoli di inchiostri, piccoli grumi espressivi.

Spicchi di gelatina colorata, i piccoli personaggi sono come una cascata di canditi dalle tonalità accese, hanno umori incandescenti. Gialli, rossi, arancioni, blu, azzurri, verdi e viola, una parata festosa e caramellata corredata da una forte impronta onomatopeica tipica del fumetto, “UOP”, “B”, “PA”, “PE”, “HI”, “EB”, “Z”, “:D”, “SBU”, “LA”... sembra quasi di sentirli goffamente. Le fantasie di Willow sono invasioni di positività, e non ci resta che cantare allegramente sotto una pioggia di colore.

Pubblicato: Giovedì, 12 Dicembre 2013

Articolo di:  Federica Fiumelli








sabato 30 novembre 2013

La Grande Magia Dal 20 Ottobre 2013 al 16 Febbraio 2014 presso MamBO, Bologna

Ecco pubblicato sul 
Wall Street International Magazine:

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/agenda/arti/la-grande-magia_20131127115038.html#.Upn4xtLuI_c

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La Grande Magia

Dal 20 Ottobre 2013 al 16 Febbraio 2014 presso MamBO, Bologna

La Grande Magia

Alice rise: «È inutile che ci provi» disse, «non si può credere a una cosa impossibile». «Oserei dire che non ti sei allenata molto», ribatté la Regina. «Quando ero giovane, mi esercitavo sempre mezz'ora al giorno. A volte riuscivo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione.»


Visitare la mostra La grande magia è un po’ come vestire i panni dell’Alice di Carroll almeno per qualche ora. Il percorso espositivo si srotola come se fosse un piccolo paese delle meraviglie, un sentiero costellato di pensieri impossibili, fantastici, che hanno assunto valenza plastica e visiva grazie a persone speciali, quelle persone dalla sensibilità fanciullesca che sono gli artisti. Le opere scelte appartengono alla Collezione Unicredit, una delle collezioni più importanti e prestigiose d’Europa, veri e propri capolavori che attraversano la magia come trama nella storia dell’arte.

Quando gli artisti trasformano la materia in opera d’arte assumono sempre un po’ la valenza di alchimisti o maghi, riescono a impastare il pensiero alla forma, e se questa non è una magia, che altro può essere? Tutto ciò che seduce, che fascina lo sguardo ha un potere e l’opera d’arte diventa così una pozione contro l’apatia. Credere all’impossibile. È questo che vi si chiede all’inizio di ogni viaggio, che sia fisico o mentale, che sia visivo o uditivo.

La mostra si apre con dipinti importanti come il Capriccio Architettonico di Marco Ricci del 1700,Psiche abbandonata da Amore di Dosso Dossi del 1525, Aracne tesse la tela di Antonio Carneo del 1660, Il lamento dell’ora di Greuze del 1775. Ci si ritrova così in viaggio attraverso l’età moderna, tra leggende e miti, e ci si sente un vero viandante come nella foto esposta di Elina Brotherus, che fotografa se stessa affacciata su un vasto orizzonte paesaggistico, una ripescata dalla storia dell’arte, una reinterpretazione fotografica del Viaggiatore sopra il mare di nebbia di Caspar David Friedrich.

Una citazione di Massimo Bontempelli recita: “La magia non è che arte allo stato grossolano”. Ed ecco che ai nostri occhi appare il Bosco silente del 1925 di De Chirico e a fianco Pesci d’argento (Ninfe) del 1902 di Gustav Klimt, silhouette muliebri si stagliano su uno sfondo verdastro, fluttuano come in una pozione, sono irraggiungibili, effimere e seducenti, sono avvolte nel loro manto informe, come in una nube scura, cariche di mistero che sta per farsi pioggia.

La mostra prosegue facendo riferimento al cinema come atto magico. Una frase ricorrente, come il filo di Arianna ci lega… Il etait une fois di Jean Cocteau come un eco sordido ci accompagna. Tre proiezioni, tre estratti, La belle e la bête di Groit, Voyage dans la lune, di Georges Mélies del 1902 e il celebre Arrivée d’un train à la ciotat di Louis Lumiére del 1897, famoso per aver fatto sussultare i primi spettatori all’arrivo di quel treno che sembrava sfondare veramente lo schermo per entrare in sala. Lo stupore, la magia, l’incanto, il sogno, tutti elementi che caratterizzarono i primi esperimenti cinematografici.

Interessanti le tele di Bernard Schultze che indaga il processo magico come formazione dell’immagine dettata dall’inconscio, un concetto tanto caro al padre del movimento surrealista, André Breton. Surreale anche lo scatto di Clare Strand, Sospensione Aerea del 2008 che congela un corpo sospeso a mezza luna, in assenza di spazio e gravità e tempo. Con Col passare del tempo del 2005 opera di Vea Lewandosky, si ha veramente l’impressione di essere nel paese delle meraviglie, un orologio rotondo Siemens, dalle lancette marcate nere, viaggia all’impazzata all’incontrario, a ritroso nelle spiagge della memoria, in un non-luogo, in un'atemporalità suggestiva.

E sempre per confondere la percezione, Jeppe Hein propone un grande specchio rotante a due piani inclinati, 360° Illusione II, dove si viene inghiottiti in una centrifuga visiva a più piani: la sensazione di roteare in questo riflesso assieme alle opere esposte vicino crea una distorsione percettiva di grande effetto che incanta chiunque passi davanti.

Arthur Duff invece si diverte a proiettare con un laser, parole in corsivo dal colore rosso flash che si muovono su una parete bianca, who see himleaving, J, S, alone, in space, in total, stillness, see someone, far off, in the distance. Barbara Probst propone diversi punti di vista, fotografando quattro diverse prospettive di un unico evento. E ancora Peter Blake ci propone L’uomo farfalla, 2010, un uomo sognante capace di emanare tante farfalle color pastello libere in giro in uno spazio urbano, la donna di Shirin Neshat invece è un grande ritratto fotografico silenzioso, in bianco e nero, ricoperto da cima a fondo di scritte, di parole arabe: il titolo è Senza parole, del 1996. Il silenzio della Neshat, è un silenzio che urla e denuncia, e di urlo si parla anche nell’opera di Günther Schrei del 1991, Urlo Bianco, una grande tela costellata da una tempesta fitta e vorticosa di chiodi, contaminati da una colata di pittura total white densa, che fa male allo sguardo pungendolo.

Importanti nomi continuano a costellare la mostra, come Leger, Tinguely, Richter, Schwitters con i collage su carta del ’24, ’36, ’47, autentici non-sense degni dell’artista dada. E poi uno dei capolavori futuristi di Giacomo Balla, La guerra del 1916, manifesto dell’Italia interventista. La mostra presenta anche una ricca sezione fotografica, da Fischli e Weiss, Florence Henri, Bayer, Tim Gidal, ad Arthur Benda con La Danza dei dischi d’oro del 1931, Duchenne, Cameron, Weston, Mimmo Jodice, e i grafismi espressionisti di Rainer.

Christin Marclay presenta un curioso video, Telephones del 1995 un mixaggio di spezzoni di film hollywoodiani che hanno come filo conduttore la chiamata telefonica, dallo squillo all’Hello, alla chiusura. In mezzo il nulla, l’epifania di un gesto che noi non consideriamo neanche, vista l’automaticità con il quale lo compiamo, ecco che viene posto l’accento su un atto banale che rivisitato assume un’altra valenza estetica. Quale sarà veramente il contenuto della chiamata?

Il percorso espositivo continua con un’opera di Yves klein, Le monochrome, una scultura di spugna completamente blu, quel blu infinitesimale, impalpabile, invasivo che Klein rese concetto. Stefano Arienti invece coniuga il neon a un materiale povero come il polistirolo, arricchendolo non solo di luce ma anche di preziosità narrativa e manuale resa dalle abilissime incisioni di scene. E ancora compaiono, Ghirri, Zorio, Penone e Paolini con 3X3 Ognuno è l’altro o nessuno ognuno sembra guardare se stesso nell’atto di un fare, un calco in gesso che prevede un dialogo immaginato con Canova. Ci sono anche le impronte di piedi nel fango del fiume su un cartone di Richard Long, dell’87, che denunciano una presenza ora assente, un passaggio fugace di un tempo lontano.

E per credere nell’impossibile chi meglio di Christo, che con i bozzetti progetti delle Isole impacchettate di Biscayne Bay Greather Miami dell’83, rende possibile il sogno di scoprire il visibile celandolo. La grande magia consiste proprio in questo, nel disvelamento dell’ordinario, nell’epifania del fenomeno più banale, dobbiamo prestare attenzione e cura e particolare sguardo a tutto quello che ci circonda, perché siamo particelle in perpetua relazione con il mondo, e tutto può essere portatore di un messaggio caleidoscopico. Alla fine di questa mostra ci sentiamo un po’ come Topolino nell’Apprendista Stregone, curiosi e vogliosi di sperimentare, in cerca di una propria pozione, di una propria alchimia, di una magia.

Pubblicato: Mercoledì, 27 Novembre 2013
Articolo di:  Federica Fiumelli













venerdì 15 novembre 2013

Francesca Alinovi. Indagini di frontiera 26 Ottobre - 17 Novembre 2013 presso MAMbo, Bologna.

Ecco il mio ultimo articolo pubblicato sul 
Wall Street International Magazine:

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/agenda/arti/francesca-alinovi-indagini-di-frontiera_20131112160150.html#.UoZF4tL56So

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Francesca Alinovi. Indagini di frontiera

26 Ottobre - 17 Novembre 2013 presso MAMbo, Bologna.

Francesca Alinovi. Indagini di frontiera

In occasione del trentennale dalla sua scomparsa, MAMbo, Museo di Arte Moderna di Bologna dedica la sala video della Collezione Permanente alla memoria di una grande donna, Francesca Alinovi.
Nativa di Parma, Francesca nella sua purtroppo breve vita ha saputo lasciarci testimonianza di un grande amore. Un amore che si mescola profondamente con la vita che profuma di passione, un credo importante e nobile. Strappataci via in un omicidio terribile che tinse di un nero macabro le cronache dell’estate bolognese del 1983, il delitto del DAMS, ricordato così, ci portò via una delle menti più brillanti, una delle persone più stimolanti del panorama intellettuale artistico. Profonda amarezza. Amarezza per l’impossibilità di incontrarla un giorno in un'aula, o davanti a un caffè per attingere la forza e l’impegno sul campo di una persona che amava ciò che faceva. Francesca sarebbe stata una di quelle persone in grado di travolgere studiosi e non solo, appassionati come me dell’arte, perché l’arte aiuta a vivere meglio.
La mostra al MAMbo, visibile fino al 17 novembre, è curata da Sabrina Samorì e ripercorre attraverso foto e documenti, tra tesi, pubblicazioni e articoli le tappe salienti del lavoro dell’Alinovi. E’ possibile anche vedere un video realizzato da Veronica Santi, The New-new Yorkers, 2013, dove sono raccolte le interviste alle persone e agli artisti che Francesca conobbe, e che sono rimasti contagiati e ammaliati da quella che può essere considerata una delle più grandi esploratrici dell’isola arte.
Veronica Santi con il documentario Off Identikit, un progetto di crowdfounding ha in questi mesi promosso un work in progress che ha il diritto di coinvolgere noi tutti per aiutare la realizzazione di un qualcosa che ricordi l’intenso lavoro di Francesca. E’ un idea che la Santi ci regala, un progetto per tenere in vita l’amore dell’Alinovi, per ridarle voce. “I remember the best interview I’ve ever done in my life was with Francesca Alinovi”. Quest’affermazione era di Keith Haring. Perché le indagini di Francesca erano veramente di frontiera, il suo era un approccio da viaggiatrice curiosa e mai stanca di entrare in sintonia direttamente con l’arte e l’artista. Erano gli anni di esplosione dell’underground, del graffitismo, della New York, pericolosa e sinistra. E Francesca era là, con loro, dall’altra parte della barricata ad annusare, a respirare, a viverla l’arte di strada. Una full immersion a cuore aperto. Ai margini, al confine, Francesca era presente.
L’Alinovi rappresenta la figura di critico-artista, di qualcuno che abdica se stesso per la causa artistica, perché se ognuno ha il diritto di esprimersi come vuole è profondamente interessante capire perché ed entrare in contatto con le varie diversità. Laureata in lettere con Francesco Arcangeli presso l’Università di Bologna, discusse la tesi su Carlo Corsi, in seguito si specializzò in arte contemporanea con Renato Barilli, divenne ricercatrice al DAMS e focalizzò i suoi studi su Lucio Fontana, lo spazialismo, Piero Manzoni, la fotografia, il dadaismo. L’intensa attività di critica e curatrice è costellata da importanti tappe: fra le sue principali pubblicazioni, oltre ai saggi in cataloghi e in riviste specializzate (BolaffiArte,DomusFlash Art), si segnalano: Le due vie di Piero Manzoni, in AA.VV., Estetica e società tecnologica, Bologna, Il Mulino, 1976; Dada, arte, anti-arte, Firenze, D'Anna, 1981; La fotografia. Illusione o rivelazione?, Bologna, Il Mulino, 1981; Natura impossibile del post-moderno, in AA.VV.,Paesaggio metropolitano, Milano, Feltrinelli, 1982. Una cospicua raccolta di saggi è stata pubblicata da Il Mulino nel 1984, con il titolo L'arte mia, ripreso da un articolo pubblicato su Iterarte (n. 21), nel 1981.
Fra le principali mostre da lei curate o co-curate: Settimana Internazionale della Performancepresso la Galleria Comunale d'Arte Moderna di Bologna, dal 1977 al 1982; Pittura-Ambiente, Milano, Palazzo Reale, 1979; Dieci anni dopo. I Nuovi-nuovi, Bologna, Galleria Comunale d'Arte Moderna, 1980; The Italian Wave, New York, Holly Solomon Gallery, 1980; ORA!, Pescara, Studio Cesare Manzo, 1980; Marcello Jori, Bologna, Galleria Dé Foscherari, 1982; Gli anni trenta (sezione fotografica), Milano, Palazzo Reale, 1982; Registrazione di Frequenza, Bologna, Galleria d'Arte Moderna, 1982; Una generazione postmoderna, Milano, 1982. Nel 1984 la Galleria Comunale d'arte moderna di Bologna ha realizzato, su suo progetto, la mostra Arte di frontiera: New York graffiti. Numerosi i contributi delle persone che compaiono nel documentario di Veronica Santi, Kenny Scharf, Daze e Crash, Ontani, Mariuccia Casadio, Ann Magnuson, Toxic, Stefan Eins, Marcello Jori.
Probabilmente il fatto di essere completamente sola durante la visita alla mostra ha amplificato in me qualcosa di interessante, il sentire le voci dal video, parlando di Francesca, le foto, le scritte chiave sulla sua poetica, e tutti gli articoli, le tesi, i ricordi degli amici e compagni di lavoro, sembrava che tutte le sue parole rivivessero come un eco infinito in quella Sala Video. Sembrava che lei fosse lì, i suoi pensieri così attuali, i suoi capelli elettrizzati e neri inchiostro come se le sue idee prendessero una forma plastica. Francesca era le sue parole, quell’energia frizzante commista a una nostalgia al caffè, quell’aura fascinosa che la distingueva, quell’elettricità di tratto quasi come una dama boldiniana. Francesca che affermava: “Io sono come i miei artisti” o ancora: “Ho scelto questo mestiere perché non andava verso il senso comune… ecco a me piace non avere buonsenso.” “Transitare per brevi momenti su territori di frontiera, scorrere avventurosamente lungo avamposti instabili, per attimi d’incontro, di scambio di contaminazione.”
E poi: “L’arte Mia esige che sia ogni singolo individuo a captare a modo suo la sua onda.” “ENFARTE, il pianeta dell’enfasi che si fa arte: l’enfasi del’estasi, l’estasi del mettersi in mostra” da Enfatismo, Flash Art, 1983. “L’arte di avanguardia non solo non è morta, ma vive spiando con grandi occhi spalancati sul centro della periferia.” E ancora il concetto di Arte life-size, un arte a misura d’uomo di taglia individuale. Fantastico anche il concetto di intendere i movimenti artistici come messaggi in bottiglia, piccoli naufragi che noi dobbiamo scoprire, impegnandoci a cercarli e una vola trovati a esplorarli senza paura né pregiudizi. “Sono finiti i tempi dell’aut-aut ed è iniziato il tempo dell’e… e… ”
Anche se non l’ho potuta conoscere di persona e non potrò farlo, le sue parole mi sono state illuminanti, mi piace ricordare Francesca così, con una immensa e maestosa E seguita da puntini di sospensione. Quei puntini simboli di ricerca, di instabilità, di apertura, di work in progress, di ponte verso un futuro ancora da studiare e scoprire, mi piace pensare a Francesca come un'amazzone libera, girovaga e curiosa, a cavallo delle sue parole, con la penna davanti al foglio bianco, con l’inchiostro intrepido di uscire per fissare idee e concetti, voglio pensare che Francesca seduta davanti la sua macchina da scrivere ci abbia lasciata un dono immenso, una testimonianza preziosa che dobbiamo ricordare sempre.
Un cuore immenso, una voglia del sapere viscerale, un vivere l’arte sul campo come una battaglia di pensieri, una moltitudine che riscopre la creatività individuale, ciascuna importante a modo suo, come petali di un unico fiore. L’arte mia è l’arte nostra.


MAMbo Museo d'Arte Moderna di Bologna
Via Don Minzoni,14
Bologna 40121 Italia
Tel. +39 051 6496611
info@mambo-bologna.org
www.mambo-bologna.org
Orari di apertura
Martedì, Mercoledì e Venerdì 12.00 - 18.00
Giovedì, Sabato, Domenica e festivi 12.00 - 20.00

Pubblicato: Martedì, 12 Novembre 2013
Articolo di:  Federica Fiumelli




domenica 3 novembre 2013

Riflessioni di una sera di autunno su: “Il Bacio” di Klimt

Ecco pubblicato il mio ultimo pezzo sul nuovo numero di 
Frattura Scomposta.

www.fratturascomposta.it

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Sarà che nelle sere di autunno davanti a una tazza di tè c’è il bisogno di fantasticare anche davanti a uno dei quadri più famosi al mondo.
Le foglie si staccano dai rami, e ingialliscono, ricoprono le strade e le certezze anche. Le prime arie fredde dopo l’estate, riportano il bisogno stringersi per pensare. Il quadro di quella sera era talmente conosciuto che la sua fama lo procede. Diventato ormai un must nell’immaginario comune, “Il Bacio di Kilmt” una fredda sera d’autunno è stato il mio fedele compagno, il mio ispiratore, il viaggiatore venuto da lontano che bussando alla mia porta per un riparo, davanti al fumo del tè bollente ha tenuto accesa la mia fantasia.
Succede che a volte sfogliando qualche libro polveroso salti fuori qualcosa.
Quella sera fu proprio “Il bacio”, olio a tela del 1907-1908, capolavoro del periodo oro dell’artista austriaco Gustav Klimt, celebre pittore simbolista, appartenente alla Secessione Viennese e rappresentante dell’Art Nouveau.
Liberamente ispirato ai mosaici bizantini, il bacio riempie il cuore per la lucentezza dell’oro utilizzato. I protagonisti sono due amanti cinti in un abbraccio, nell’abbraccio più famoso del mondo. Leggeri, lontani, evanescenti, irraggiungibili, sembrano volare via col vento.
Un tutt’uno cosmologico, brillante, prezioso. Gli amanti sembrano un unico battito. Ma invece ecco che scorgiamo i due differenti abiti, l’uomo tappezzato di fantasie rettangolari in nero e la donna di linee ondulate e circolare con zone rosse blu e verdi.
Con i capi cosparsi di fiori le menti degli amanti sono fiorite, decorate, perché di decorativismo è intrinsecamente intinta la poetica di Klimt.
Ed è una primavera che sostiene sotto i piedi gli amanti, il prato fiorito che gli accoglie. Ma poi un precipizio forse? Niente più verde, solo un vuoto d’aria.
Il vuoto d’aria che arresta i cuori più coraggiosi, quelli che osano amare e quindi di soffrire irrimediabilmente.
Ma forse qualche volta ne vale la pena soffrire, per qui momenti da attimi, per quei momenti in cui magari un abbraccio soffoca tutte le parole.
L’uomo ha il capo chino è totalmente follemente spinto verso l’amata che getta la testa all’indietro in una resa. Non ci si può esimere dall’amare e dall’essere amati. La donna ha gli occhi chiusi rapita in un sonno momentaneamente eterno, scivolata nell’abbandono che amore vuole, senza difese, senza riserve, accoccolata nelle mani, cesta, custodi dell’uomo amato.
La donna in ginocchio e l’uomo stretti l’uno all’altra sembrano formare una L, una L dorata di Love. L’amore universale è celebrato, delicatamente, preziosamente, vellutatamente, sofficemente, come neve al sole, come ebano e miele, come cera e candela.
Viene celebrato un mondo ideale, astratto, lontano dalla realtà, puro e mistico, senza spazio e tempo. I due amanti si ritrovano in una sorta di conchiglia, di scrigno, di cassetto. Hanno in sé tutte le storie d’amore del mondo, quelle state, quelle si stanno consumando in questo preciso istante e quelle che verranno, alba e tramonto, essi vivono in una lacrima.
Nella loro pacatezza ed estasi sono implacabili come una sinfonia di Beethoven, abissali e coinvolgenti.
E’ un mondo a parte, un bacio stretto tenuto tra due mani, in segreto, in silenzio.
Sssssh. Sembra quasi di sentire qualcuno che ci inviti ad un silenzio religioso, per osservare quella perfezione in goccia, in attimo, breve e sfuggevole come fumo. E intanto il tè si raffredda. Eravamo partiti da un libro polveroso, aperto per caso, ed ora ci troviamo in un aldilà dorato a spiare silenziosamente due amanti fuori stagione.
Quell’interruzione di prato fiorito, quel burrone, ci spingono a pensare che l’amore porta ai bordi, ai lati, alle altezze, alle vertigini, a punti di non ritorno, a picchi, a vertici, ai limiti del nostro esistere.
Negli spazi più insidiosi campeggia amore, ed è fiero, coraggioso, tanto coraggioso. Ruggisce quasi.
Come si saranno conosciuti i protagonisti del bacio di Klimt?
Fantastico un po’ ancora davanti la tazza di tè, adesso ci sono anche dei biscotti. Sono “Gli Abbracci” di una nota marca italiana. La pubblicità recita: “Nessuno seppe mai se fu il cacao ad abbracciare la panna o viceversa”. Cosa non si inventano i pubblicitari penso. Furbastri. Ma tornando a protagonisti di Klimt, lui avrà incontrato lei in una giornata di sole mentre era stesa sotto un albero a riparo? Lei avrà notato lui mentre raccoglieva margherite profumate in quel campo vicino casa? Erano cresciuti insieme e poi avevano scoperto di amarsi?
Chissà poi una volte conosciutosi e riconosciutosi come avevano iniziato a parlare, chissà come si guardavano e chissà di cosa ridevano insieme.
Chissà se lui per conquistarla le leggeva qualche storia, o sei lei sorridendo alle sue parole lo innamorava sempre di più.
Chissà chissà chissà.
Chissà cosa li aveva spinti sul quel confine, sul quel ciglio, su quel lembo, dove le anime per non sfuggirsi hanno l’istinto di perdersi in un bacio.
E allora mi viene di pensare ad un libro di Grossman.
Che tu sia per me il coltello. Il coltello attraverso il quale frugo e scavo in me stesso. Per conoscersi occorre amare.
Quel bacio era molto più di un bacio, era il cercare dentro se stessi, era salvezza, era mordere l’anima dell’altro, era l’arresa prima di.
Ma come si chiameranno gli amanti? Sveva? Filippo? Elizabeth? Lèopold?
Ricordano Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, Dante e Beatrice, Lancillotto e Ginevra, potrei continuare all’infinito. 
Magari citerei anche me e te, te che forse non leggerai queste righe. Te che non sai che a te sto scrivendo.
Un te che ancora non esiste. O a te che sei esistito solo per qualche attimo.
A te che ancora non conosco, a te che stai leggendo queste parole.
Perché gli amanti esistono prima del bacio, prima di loro stessi.

Federica Fiumelli




lunedì 28 ottobre 2013

Alice O'Malley. Community of Elsewheres 23 Ottobre - 8 Novembre 2013 presso Galleria Ono Arte e Spazio9, Bologna

Ecco il mio nuovo articolozzo sul Wall Street International Magazine!

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/agenda/arti/alice-o-malley-community-of-elsewheres_20131028124058.html#.Um7Di3D56So

Enjoy!
:)




“Narciso parole di burro... Conquistami, inventami, dammi un’altra identità…” (Parole di burro, Carmen Consoli).

L’altrove. Una comunità di anime che sono aldilà del tutto. Sono altrove, volano e flettono la loro luce libere. Alice O’Malley, fotografa americana che ha immortalato la scena newyorkese underground degli anni ’90-’00, è ora in mostra a Bologna per la prima personale italiana alla Ono Arte Contemporanea e allo Spazio9. La mostra si compone di 20 scatti, è patrocinata dal Comune di Bologna e Regione Emilia Romagna, ed è in collaborazione oltre alle due gallerie sopra citate con ISIS Gallery e Gender Bender.

Venti ritratti fotografici in bianco e nero, dove la luce dello studio dell’artista sembra celebrare l’anima bohemien e funambolica dei personaggi. Outsider? Personalità ai margini, il confine tra i generi si confonde in un’essenza di assenza di definizione.Tutto è estremamente sensuale, dallo sguardo dei protagonisti alle loro nudità o travestimenti. Diamanti grezzi che presentano le loro sfaccettature fuori dal contesto dei club e della notte. Fragili, bellissimi, potenti come un’onda che si infrange su uno scoglio.

Nonostante l’affascinante bianco e nero le numerose sfumature arcobaleno delle personalità dei personaggi sono immediate, dirette e chiaramente percepibili. Gente trasversale, eccentrica, talvolta dandy, elementi kitsch come slip tigrati, cappellini, piume, trasparenze, scaldamuscoli, lunghi abiti con inserti luminosi, cappotti e cappelli stravaganti, tulle e jeans, bandane e giubbotti di pelle, guanti in lattice, o giornali che diventano abiti, maschere o manichini.

Vestiti della loro nudità. Un universo metafisico, un universo fotografico che arriva diretto e ammalia per l’intensa drammaturgia di sguardo, un universo queer, eccentrico, insolito. La mostra infatti è tenuta in occasione del festival Gender Bender giunto alla XI edizione che mantiene l’obiettivo di scoprire la bellezza laddove solitamente gli altri vedono un errore, nel diverso.

I personaggi dell'O’Malley sono interstizi speciali, segreti che decidono di spogliarsi davanti all’obiettivo dell’artista, foto che sono testimonianze e segrete confessioni, preziose. Storie differenti che l’occhio ascolta incantato. Uno degli scatti che preferisco, Formika, del 2001, un uomo tatuato è stretto in un bustino femminile bianco, seduto su uno sgabello, l’ambiente dà voce al soggetto. Di estrema sensualità questa estetica dicotomica, perché il genere dev’essere libero e non segregato nel dogma della presunta normalità.

Ma cos’è normale poi? Domanda retorica ma sempre lecita dinanzi a chi crede di esserlo. Interessante l’immagine scelta per la pubblicità del Gender Bender, un uovo con ciglia finta applicate, il titolo: il pelo nell’uovo. La presentazione difatti spiega: “è nato prima l’uovo o la gallina? Uomini, donne, transessuali, etero, gay, lesbiche si nasce o si diventa?” E ancora: “Gender Bender celebra quest’anno quel momento, il passaggio delicato dove il piccolo uovo va maneggiato con attenzione per evitare di far delle frittate.”

I personaggi ritratti dall’occhio di Alice ci raccontano storie singolari, brevi, intense nell’attimo del fotografico, sono teatri visivi, silenziosi ma corali. E quali i nomi delle persone ritratte? Dalla scrittrice Eileen Myles alla fotografa Justin Kurland, il proprietario del club “Kenny Kenny”, la drag Les Simpson (poi Linda Simpson) o la dottoressa Julia Yasuda, matematica ermafrodita che una volta accolse il pubblico di uno dei concerti di Antony completamente nuda, figura lo stesso Antony Hegarty, di Antony and the Johnsons, amico di Alice e colui che, più di tutti, ha contribuito al suo debutto come artista, tanto da essere proprio il performer a procurarle la sua prima personale newyorkese, alla Participant, Inc Gallery nel 2008.

Le fotografie dell’artista americana sono già state esposte al PS1/MOMA e all’ICP di New York, pertanto questa prima personale italiana è importante affinché il suo lavoro venga sempre più conosciuto e apprezzato. Il giardino segreto di Alice così si schiude presentandoci Orchidee rare,come definisce i soggetti ritratti la stessa artista.


Ono Arte Contemporanea
Via Santa Margherita, 10
Bologna 40123 Italia
Tel. +39 051 262465
vittoria@onoarte.com
www.onoarte.com

Orari di apertura
Martedì - Sabato
Dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 21.30

Spazio9
Via Val d'Aposa, 1c
Bologna 40123 Italia
Tel. +39 051 0390684
info@spazio9.com
www.spazio9planb.com

Orari di apertura
Lunedì - Venerdì
Dalle 10.30 alle 13.30 e dalle 15.00 alle 18.30

Pubblicato: Lunedì, 28 Ottobre 2013
Articolo di:  Federica Fiumelli










domenica 27 ottobre 2013

ALEANDRO RONCARA’ “Non esistono più i conigli di una volta” @Spazio San Giorgio, Bologna Dal 26/10 al 9/11


Ecco il mio testo critico per l'artista Aleandro Roncarà, visibile sia sul sito di Spazio San Giorgio, sia sul Wall Street International Magazine al link:





Qualcuno come Matisse sosteneva che il colore ancor prima del disegno fosse una liberazione, Klein pensava addirittura che i colori siano i veri abitanti dello spazio.
I personaggi che vivono a Mondorondo dell’artista Aleandro Roncarà, vivono, respirano, sono immersi, sono essi stessi colore puro e à plat, diretti, iconici, semplici nel modo di divertire e rallegrare apparendo.
A Mondorondo tutto è fantasia e niente è violenza come sottolinea l’artista.
Erede del grafismo chiaro e conciso alla Keith Haring, Roncarà delinea le sue figure con contorni neri marcati e robusti, le linee nere diventano veri esoscheletri di pensieri, sostengono i personaggi, sono impalcature buffe e iridescenti, derivano da sogni e idee, da ritornelli di canzoni cantati all’alba, dopo aver fatto le ore piccole al bar sotto casa.
“Maaa il cielo è sempre più, POP!”
Ogni forma è sagoma evanescente, cartonata, fluttuante negli angoli della libera fantasia più sfrenata. Cuori vispi, fiori, stelle, ma anche spille, frecce, torte, latte, chiavi, corone, matite, drink, bottiglie, prese della corrente, perché proprio di colorata elettricità si tratta nei lavori di Roncarà.
I personaggi dagli occhi a metà, occhi che sembrano serrature aperte su praterie di possibilità, perchè l’enumerazione di oggetti e situazioni si moltiplicano, perché tutto è possibile e moltiplicabile.
Cervelli in festa, o enormi baffi, teste colorate, o scheletri colored, bocche a cuore, cappelli e grandi orecchini oro, sigarette pendenti sulle labbra o nasoni allungati e rotondeggianti. Uno nessuno e centomila.
I personaggi di Mondorondo sono abituati a visioni a tutto tondo, dallo spazio all’oceano, visioni inglobanti e totalizzanti, a 360 gradi, dove gli angoli e i confini non sembrano esistere, non sono sorpresi da un mondo iper glicemicamente colorato, il colore si fa concetto neon, il colore risplende sovrano e avvolge, inchioda e arresta lo sguardo, vorticosamente, risucchia.
Color in.
I quadri di Roncarà sono una performance visiva dello sguardo, lo fanno precipitare letteralmente nel caos del colore, tra forme e icone pop sostenute dai contorni neri ma libere di vagare con la totale assenza di gravità.
Nella totale assenza di gravità c’è però incastro e attrito tra i personaggi e gli oggetti che assumono quindi la valenza di divertenti pezzi pazzi di un puzzle a incastro, sono ben dosati, ben shakerati nella moltitudine, ognuno ha il suo spazio nel non-spazio, perché tutto è essenza, distillato super pop.

Si ricorda inoltre che nelle date del 26 ottobre e del 9 novembre dalle 15:30 alle 18:00 l’artista sarà presente per il workshop con i bambini per il progetto patrocinato dal Comune di Bologna, POP FOR KIDS.

Per info e prenotazioni: INFO@SPAZIOSANGIORGIO.IT 



Orari di apertura:
Martedì-Mercoledì-Giovedì 9.30-15.30 
Venerdì 10.00-13.00 / 17.00-19.00 
Sabato 16.00-19.00 
in altri orari su appuntamento / chiuso Domenica e Lunedì

Spazio San Giorgio – Via San Giorgio 12/A - Bologna - 3495509403
Ingresso Libero



Federica Fiumelli