Ho preso tutti i segni per meraviglie e ogni meraviglia per un segno.
(Luke Davies)
In una splendida stanza di Villa Mimbelli (sede del museo dedicato a
Giovanni Fattori), esattamente Sala Ulvi Liegi (il fauve livornese) che
un tempo era camera da letto, prende vita, One of us personale
dell’artista Rachele Maistrello, a cura di Zoe De Luca. Ci troviamo
dinanzi un’autentica wunderkammer, un gabinetto, una stanza delle
meraviglie. I frammenti di One of us raccolgono per la prima
volta i sei scatti della Maistrello già apparsi in appuntamenti quali
Premio Combat 2015, Premio Fabbri 2016, Livestudio – Metronom 2016;
Level O, ArtVerona 2016. One of us è un progetto nato nel 2015 attorno a un preciso contesto, un appartamento veneziano noto come Tutti la chiamano la Casa delle Ragazze,
in cui la Maistrello ha vissuto insieme alle artiste Justine Luce,
Alice Modenesi, Barbara Prenka, Sultane Tusha e Nežka Zamar. Proprio di
queste ultime sono raccolti in One of us, disegni, oggetti,
cuciti, esposti insieme, in questo immaginifico sguardo frammentato
femminile, sospeso a metà tra realtà e artificio. Ogni particolare
riporta al contesto d’origine dove lo scatto fotografico ha trovato
l’immortalità, tutto fa parte di un preciso set.
È difatti riconoscibile nella poetica della Maistrello riconoscere un
certa fase preparatoria, una certa visione cinematografica ovattata e
cristallizzata fotograficamente nello spazio-tempo, un ibrido tra foto
di famiglia, performance e tableau-vivant. La costruzione irreale,
fittizia cede alla dicotomia del fotografico (attestare come vero
qualcosa che non lo è) la sovranità. “Ci venne l'idea che lei
[Karafilis] e le ragazze leggevano segnali occulti di infelicità nei
bianchi di nuvole, che malgrado la differenza di età fra loro, si fosse
instaurata una comunicazione atemporale, come se la vecchia signora le
ammonisse nel suo greco biascicato: 'La vita è una perdita di tempo'.”
(Da Le vergini suicide di Jeffrey Kent Eugenides).
Nei sei scatti in grande formato di One of us, la realtà si
fonde con la finzione attraverso macchie di colore, la Maistrello
pittorica, oserei dire ironicamente “macchiaiola” innesca una fusione di
forme, dove i corpi muliebri si fondono appunto con l’ambiente, si
confondono a mimetizzarsi con stoffe floreali, peluche, cuscini,
pigiami, capelli, lenzuola, trucioli di legno, foglie, cartoni (fogli e
scatoloni), schiuma da bagno, tessuti con nuvole, brandelli di filato e
lana. Tutto fa parte di una cosmogonia immaginifica metafisica,
surreale, dove la realtà fotografica diviene una sorta di pittura
digitale. “Sospettavo che nulla esistesse davvero, che la realtà fosse
una materia gelatinosa che i miei sensi capivano a metà. Non c'erano
prove che tutti la percepissero alla stessa maniera. Forse Zulema, Riad
Halabì e gli altri avevano un'impressione diversa delle cose, forse non
vedevano gli stessi colori, né udivano gli stessi suoni. Se così fosse
stato, ognuno viveva in assoluta solitudine”. (Isabel Allende, Eva Luna).
Tutto in One of us è sospeso in un’eternità ciclica,
softness, un “realismo magico” che la avvicina molto a una visione
letteraria, a una scrittrice donna, la cilena Allende. L’attenzione per
materiali e relazioni diviene vertice, e vortice conoscitivo di sé e del
mondo circostante. Per comprendere questa realtà che sfugge, la
Maistrello adotta un proprio linguaggio di messa in scena, dove il
contesto di un momento diviene l’apice estetico della propria poiesis.
Dinnanzi a questa wunderkammer postmoderna siamo incuriositi a scoprire
questa sorta di peccaminosità intrinseca femminile, dove un oggetto
potrebbe destare un domino di significati a metà strada tra la fiaba e
il proibito, tra una verginità e proibizione di sguardo, tra una
leggerezza calviniana e una forza proustiana.
Les femmes ritratte dalla Maistrello sono possibili vergini suicide
2.0, preraffaellite extratemporali che al ritmo dilatato e vibrante di
una composizione acustica degli Air, si rifiutano di guardare l’ultimo
like, preferiscono riempire il loro spleen fondendosi con i rischi della
frammentarietà del colore. One of us è una mostra quasi da sbirciare dall’occhiello di una porta, in gran segreto.
La trovai sdraiata sul letto nel suo vestito a fiori bella come una notte di giugno e ubriaca come una scimmia.
(Francis Scott Fitzgerald)
E ora due chiacchiere con Rachele Maistrello.
Come ti sei avvicinata all’arte? Come definiresti l’essere artista?
Il primo vero contatto è stato attraverso le immagini. Quando ero
molto piccola, da circa 5 anni fino ai 12, internet non esisteva e le
immagini erano molto più rare e preziose: certe, se le perdevi, potevi
fisicamente non trovarle davvero mai più. Ogni tanto ne incollavo una in
questo quaderno che era il mio regno del possibile: un agglomerato di
misteriose chiavi d’accesso da non perdere. Molte di queste immagini
sono rimaste per molto tempo senza fonte, senza storia, ma hanno
continuato a rimanere vive. C’è questa parte che amo molto nella “camera
chiara” in cui Barthes parla del ritratto della madre: per quanto lui
cerchi, le fotografie che ha di lei sono mute, non riesce a ritrovarla
davvero, e poi, a un tratto, eccola lì, la rivede come nei ricordi più
vivi, in una fotografia senza pretese. Certe immagini hanno il potere di
dare forma a qualcosa che sembra innominabile, perduto. Col tempo ho
scoperto che non solo le immagini hanno questo potere, ma si tratta una
prerogativa dell’arte: la possibilità di trattenere la vita, di lavorare
con la materia prima dell’essere umano. Credo che lavorare con l’arte
consista soprattutto in questo: non cercare di dare una nuova forma alla
realtà, ma attraverso un contro linguaggio fatto di regole proprie,
arbitrario ma necessario e coerente con se stesso, riuscire a
trattenerne una vibrazione che non si esaurisca nel tempo.
Quanto reputi sia importante l’ambito della formazione (dalle
università alle accademie) per un artista? Mi racconti come sono stati i
tuoi anni da studentessa?
Ti posso parlare della mia esperienza. Allo Iuav fondamentali sono
stati Adrian Paci, Giorgio Agamben, Guidi Guidi e altri colleghi
artisti. All’Ecole des Beaux Artes ho passato molto tempo a stampare a
colori in camera oscura, un’esperienza importantissima, difficilmente
replicabile in Italia, dove non ci sono, da quello io sappia, i luoghi
dove poterlo fare. Qui Annette Messager mi ha accolta come non avrei mai
immaginato, è stata una guida silenziosa, ma fondamentale. A Zurigo,
allo ZHDK, ho imparato la tecnica, che volevo conoscere, per potermene
poi dimenticare. Poi ho incontrato Beat Streuli, che era già supervisor
di un progetto col museo di fotografia di Cinisello Balsamo, anche lui
una figura molto importante per me. Ho sempre vissuto il “dovere”
dell’Accademia come qualcosa di restrittivo da cui fuggire, ma alla
fine, tirando le somme, le mie esperienze formative sono state molto
importanti, soprattutto quando il rapporto con gli insegnanti è stato
vissuto con sincerità e libertà, diventando uno scambio tra persone
vissuto a pari livello.
Se dovessi stilare una top ten di opere d’arte (dal teatro al cinema
alla danza alla musica, alla letteratura) quali sono i tuoi “must
have”? Quali sono state e sono le tue ispirazioni?
I riferimenti sono come gli amici: certi, di vecchia data, li rivedi
dopo qualche anno e non trovi più le parole, la sintonia. Poi, magari,
dopo anni li reincontri di nuovo e tutto è come all’inizio. Quindi forse
la risposta più onesta che posso darti è questa: nelle ultime settimane
ho sentito la necessità di rileggere tre libri, Le voci della sera, di Natalia Ginzburg, Ieri
di Agota Kristof e alcuni racconti di Alice Munro. C’è un film, che
riguardo spesso e mi parla nello stesso modo con la stessa intensità,
che consiglierei a chiunque di vedere, è Les Enfantes du Paradis di Marcel Carné.
Da artista–critico, come definiresti/racconteresti il lavoro che hai scelto per questa esposizione?
Si tratta di una mostra costruita in varie fasi e su più livelli. La
parte fotografica raccoglie sei fotografie di grandi dimensioni che ho
costruito nel corso degli anni, che è tuttora in evoluzione. Sono il
risultato di un lungo processo relazionale con le abitanti di una casa
veneziana, “tutti la chiamano la casa delle ragazze”, dove ho vissuto
dal 2013 al 2016, tutte artiste. È stato anche un percorso sul potere
simbolico dell’immagine, e sull’aspetto performativo e pittorico
dell’immagine fotografica. Ogni fotografia è il risultato di mesi di
preparazione di set allestiti per la casa, in cui ogni forma, materiale e
colore è ricomposto con precisione e dedizione, per poter dare vita a
uno spazio libero di movimento dei corpi e delle menti delle ragazze.
Ogni volta in cui abbiamo costruito le immagini è stato quasi un atto
rituale, in cui riunirci e performare “per” e “con” la macchina
fotografica. L’altro livello è costruito dal libro presente in mostra:
prodotto dallo studio Cortellazzo Wiel Zardet e Associati e in
collaborazione con Tra, è un’opera a molte mani, tutte le ragazze della
casa hanno contribuito con schizzi, oggetti recuperati, disegni e
materiale d’archivio in un piccolo atlante da sfogliare in libertà, dove
vivere l’atmosfera in cui è nata One of Us, la serie fotografica. L’ultimo livello, (da qui il sottotitolo, The cabinet) è l’allestimento di opere delle ragazze e piccoli oggetti nella stanza Ulvi Liegi,
la ex camera da letto di Villa Mimbelli. L’allestimento e la concezione
della mostra è stato il frutto di una collaborazione con Zoë De Luca,
che con grande sensibilità e precisione mi ha aiutata a selezionare tra
le innumerevoli possibilità e mi ha guidata attraverso questo viaggio,
che tra la leggera ironia e il fare scientifico ha cercato di rispondere
alla forte identità del Museo Fattori.
Che rapporto hai con la città in cui vivi?
Da poco mi sono trasferita a Bologna, che vivo un po’ come una
navicella fuori dal tempo. Passo molto tempo nella mia casa-studio, che
dà sull’enorme giardino della signora Franca, un luogo magico, in cui ha
costruito una biodiversità rara da trovare: scoiattoli, tartarughe e
pipistrelli si muovono tra palme, banani e cespugli di ortensie. Quando
ho tempo vado a trovare Filippo Marzocchi e Mattia Pajè che gestiscono
la Gelateria Sogni di Ghiaccio. La città, in cui mi piace fare dei
grandi giri in bicicletta e che mi ha accolta fino ad ora molto bene,
ancora non la conosco molto, perché sono sempre in viaggio e quando
torno ne approfitto per concentrarmi sui miei progetti.
Una delle ultime esposizioni viste che ti ha positivamente colpito?
Negli ultimi due anni sicuramente“Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni a CAMERA a Torino. Negli ultimi due mesi la mostra di Adrian Paci nei chiostri di Sant’Eustorgio a Milano.
Giunti al termine di questa conversazione, agli artisti faccio sempre una domanda… Cosa vorresti che ti chiedessi?
Se c’è una piccola causa a cui tengo. E ti risponderei che dove sono
cresciuta, a Conegliano, c’era, a Palazzo Sarcinelli, una magnifica
biblioteca a scaffale aperto, con delle stupende prime edizioni e una
ricchissima collezione di libri. Dal 2000, la nuova sede della
biblioteca è stata spostata in un luogo con pochi posti e non abbastanza
grande per contenere la collezione libraria. Tutto per me è partito da
quella biblioteca, vorrei che anche le nuove generazioni potessero poter
avere accesso a un luogo dove poter leggere e studiare, come ho potuto
avere io, e non solo nel mio paese di nascita.
Ultima domanda giuro. Se chiudi gli occhi in questo istante
descrivici l’immagine che vedi (se la vedi).
Vedo quello che c’è anche
quando li tengo aperti: una terrazza bianca che si affaccia sul mare di
Siracusa illuminato dal sole.