Un mio autoritratto? Avrei voluto avere i capelli della venere di Botticelli, il sorriso della Gioconda, gli occhi alla Picasso, il collo alla Modigliani, i colori di Matisse, il corpo scolpito da Canova e la grazia delle muse Preraffaellite; avrei voluto essere di una bellezza fredda e smaltata alla Otto Dix per giocare una partita a scacchi con Duchamp in un bar dalla grande vetrina come quelli di Hopper. Per il futuro mi piacerebbe rimanere impressa come un’icona pop di Warhol e volare nell’altrove come gli amanti di Chagall.

martedì 8 agosto 2017

Matilde Cassarini - Future's Tricks @ LAGOLANDIA - Lago Brasimone






 “… con la testa rivolta al futuro e gli occhi rivolti al passato.” (Giorgio De Chirico)


Metaforicamente metafisica si presenta la pratica artistica fotografica di Matilde Cassarini.

Per la seconda edizione di Lagolandia, al Lago Brasimone, l’artista presenta un progetto multiforme che comprende la serie di manifesti “Future, Future!” del 2016, “Out of border” sempre del 2016, la serie di “Sovrapposizioni” e di fotografie dedicate al centro di ricerca sulle energie nucleari, in collaborazione con Gioele Villani, entrambe del 2015.



I sette manifesti che compongono “Future, Future!” sono disseminati all’aperto lungo i fianchi e le curvature del Lago Brasimone, innestando una riflessione a doppio taglio.

L’artista ha estrapolato immagini da riviste scientifiche anni cinquanta per poi farli divenire manifesti pubblicitari contemporanei, attraverso i quali nasce spontanea la riflessione sul progresso-regresso, sul presente tramite lo scambio tra passato e futuro e sul ruolo del simbolo nella cultura di massa.

L’artista si interroga su paesaggi futuribili attraverso illustrazioni vintage, molto pop.

Pubblicità apocalittiche? Previsioni? O inquietanti pubblicità di un tempo perduto?

Il tempo è un inganno.

E così i titoli si succedono in una scenario naturale: “Previsioni radioattive”, “Medicapolis”, “Aerei atomici”, “La città del futuro”, “Serpenti d’alluminio”, “Futurismo”, “Alghe”.

Impossibile non pensare ad atmosfere nord europee, come quelle cinematografiche e visionarie di Fritz Lang, o alle sonorità elettriche e minimali dei Kraftwerk. Entrambe, due visioni perturbanti, due cosmogonie che trovano nella meccanizzazione-robotizzazione dei sensi il verbo.

Quelle stesse immagini visive che i Kraftwerk trasmettono inneggiando “superautostrade” telematiche proprie di una celebrazione di un’utopia tecnologica, già decantata dal nostro futurista Filippo Tommaso Marinetti.

Un sentire avanguardistico è dichiaratamente espresso nella traslazione oggettuale della Cassarini, che riflette non solo sul tempo, ma anche sulla trasformazione che esso comporta nello e sullo spazio urbano, quello presente attraverso l’installazione del segno - manifesto pubblicitario e quello ipotetico contenuto in esso.



In “Out of border” presentato per la prima volta in occasione di Fotografia Europea, l’artista ritorna con la sua dialettica di intervento. Ciò che viene analizzato in questa opera è il concetto di confine, così labile e complesso e di spazio naturale. L’artista ha inoltre affrontato il confronto a lei molto caro di analogico e digitale.

Ciò che vediamo, una parte di Italia, non è che una fotografia satellitare ri-formattata con l’utilizzo di un retino fotografico estrapolato da altrettante fotografie di elementi naturali che l’artista ha precedentemente scattato. La fusione tra analogico – digitale ben rappresenta metaforicamente la caduta di ogni confine di appartenenza geo-politica, geo-fisica e geo-etica.



«Un confine è soprattutto e in primo luogo una parola che può essere utilizzata secondo diverse accezioni, in riferimento alla soglia del dolore, al confine dell’essenza, al limite di un disastro, al discrimine tra sanità e pazzia. (…) In un certo senso, i confini sono la pelle dei luoghi e anche una sorta di scorza per la maggior parte delle idee. I confini sono le nostre definizioni. E sono troppo sottili. Non c’è niente da controllare, perché non vediamo mai l’altro lato del confine correttamente»



Sigalit Landau - DeadSee, 2005



Il dialogo tra analogico e digitale, declinato sottoforma di paesaggio fanta-apocalittico, metafisico ritorna nella serie di “Sovrapposizioni” e nella serie di scatti dedicati alla centrale nucleare mai entrata in funzione.

Se le prime ricordano le atmosfere surrealiste di Eugène Atget, nelle seconde è percepibile un’attenzione verso l’archeologia industriale di matrice tedesca, come la famigerata scuola di Bernd e Hilla Becher.

Gli scenari in bianco e nero, abdicano all’assenza di presenze umane, in merito ad un panteismo fantastico, irreale e visionario. La fusione di due negativi, nelle sovrapposizioni, danno origine a nuove visioni, nuove immagini, nuove dimensioni, nuovi vuoti semantici, nuove archeologie visuali stratificate dove lo spazio diviene accesso alla forma del silenzio profondo delle cose.

Le architetture si confondono, che siano esse di cemento o composte di luce ed ombre, i paesaggi si astraggono, mantenendo una purità ed un’armonia formale onirica e rarefatta. La realtà cede il passo ad una dimensione utopistica nuova. Avanguardistica.



Federica Fiumelli










Rachele Maistrello - One Of Us

link: https://wsimag.com/it/arte/26748-one-of-us




Ho preso tutti i segni per meraviglie e ogni meraviglia per un segno.
(Luke Davies)
In una splendida stanza di Villa Mimbelli (sede del museo dedicato a Giovanni Fattori), esattamente Sala Ulvi Liegi (il fauve livornese) che un tempo era camera da letto, prende vita, One of us personale dell’artista Rachele Maistrello, a cura di Zoe De Luca. Ci troviamo dinanzi un’autentica wunderkammer, un gabinetto, una stanza delle meraviglie. I frammenti di One of us raccolgono per la prima volta i sei scatti della Maistrello già apparsi in appuntamenti quali Premio Combat 2015, Premio Fabbri 2016, Livestudio – Metronom 2016; Level O, ArtVerona 2016. One of us è un progetto nato nel 2015 attorno a un preciso contesto, un appartamento veneziano noto come Tutti la chiamano la Casa delle Ragazze, in cui la Maistrello ha vissuto insieme alle artiste Justine Luce, Alice Modenesi, Barbara Prenka, Sultane Tusha e Nežka Zamar. Proprio di queste ultime sono raccolti in One of us, disegni, oggetti, cuciti, esposti insieme, in questo immaginifico sguardo frammentato femminile, sospeso a metà tra realtà e artificio. Ogni particolare riporta al contesto d’origine dove lo scatto fotografico ha trovato l’immortalità, tutto fa parte di un preciso set.

È difatti riconoscibile nella poetica della Maistrello riconoscere un certa fase preparatoria, una certa visione cinematografica ovattata e cristallizzata fotograficamente nello spazio-tempo, un ibrido tra foto di famiglia, performance e tableau-vivant. La costruzione irreale, fittizia cede alla dicotomia del fotografico (attestare come vero qualcosa che non lo è) la sovranità. “Ci venne l'idea che lei [Karafilis] e le ragazze leggevano segnali occulti di infelicità nei bianchi di nuvole, che malgrado la differenza di età fra loro, si fosse instaurata una comunicazione atemporale, come se la vecchia signora le ammonisse nel suo greco biascicato: 'La vita è una perdita di tempo'.” (Da Le vergini suicide di Jeffrey Kent Eugenides). 

Nei sei scatti in grande formato di One of us, la realtà si fonde con la finzione attraverso macchie di colore, la Maistrello pittorica, oserei dire ironicamente “macchiaiola” innesca una fusione di forme, dove i corpi muliebri si fondono appunto con l’ambiente, si confondono a mimetizzarsi con stoffe floreali, peluche, cuscini, pigiami, capelli, lenzuola, trucioli di legno, foglie, cartoni (fogli e scatoloni), schiuma da bagno, tessuti con nuvole, brandelli di filato e lana. Tutto fa parte di una cosmogonia immaginifica metafisica, surreale, dove la realtà fotografica diviene una sorta di pittura digitale. “Sospettavo che nulla esistesse davvero, che la realtà fosse una materia gelatinosa che i miei sensi capivano a metà. Non c'erano prove che tutti la percepissero alla stessa maniera. Forse Zulema, Riad Halabì e gli altri avevano un'impressione diversa delle cose, forse non vedevano gli stessi colori, né udivano gli stessi suoni. Se così fosse stato, ognuno viveva in assoluta solitudine”. (Isabel Allende, Eva Luna). 

Tutto in One of us è sospeso in un’eternità ciclica, softness, un “realismo magico” che la avvicina molto a una visione letteraria, a una scrittrice donna, la cilena Allende. L’attenzione per materiali e relazioni diviene vertice, e vortice conoscitivo di sé e del mondo circostante. Per comprendere questa realtà che sfugge, la Maistrello adotta un proprio linguaggio di messa in scena, dove il contesto di un momento diviene l’apice estetico della propria poiesis. Dinnanzi a questa wunderkammer postmoderna siamo incuriositi a scoprire questa sorta di peccaminosità intrinseca femminile, dove un oggetto potrebbe destare un domino di significati a metà strada tra la fiaba e il proibito, tra una verginità e proibizione di sguardo, tra una leggerezza calviniana e una forza proustiana. 

Les femmes ritratte dalla Maistrello sono possibili vergini suicide 2.0, preraffaellite extratemporali che al ritmo dilatato e vibrante di una composizione acustica degli Air, si rifiutano di guardare l’ultimo like, preferiscono riempire il loro spleen fondendosi con i rischi della frammentarietà del colore. One of us è una mostra quasi da sbirciare dall’occhiello di una porta, in gran segreto.
La trovai sdraiata sul letto nel suo vestito a fiori bella come una notte di giugno e ubriaca come una scimmia.
(Francis Scott Fitzgerald)
E ora due chiacchiere con Rachele Maistrello.
Come ti sei avvicinata all’arte? Come definiresti l’essere artista?
Il primo vero contatto è stato attraverso le immagini. Quando ero molto piccola, da circa 5 anni fino ai 12, internet non esisteva e le immagini erano molto più rare e preziose: certe, se le perdevi, potevi fisicamente non trovarle davvero mai più. Ogni tanto ne incollavo una in questo quaderno che era il mio regno del possibile: un agglomerato di misteriose chiavi d’accesso da non perdere. Molte di queste immagini sono rimaste per molto tempo senza fonte, senza storia, ma hanno continuato a rimanere vive. C’è questa parte che amo molto nella “camera chiara” in cui Barthes parla del ritratto della madre: per quanto lui cerchi, le fotografie che ha di lei sono mute, non riesce a ritrovarla davvero, e poi, a un tratto, eccola lì, la rivede come nei ricordi più vivi, in una fotografia senza pretese. Certe immagini hanno il potere di dare forma a qualcosa che sembra innominabile, perduto. Col tempo ho scoperto che non solo le immagini hanno questo potere, ma si tratta una prerogativa dell’arte: la possibilità di trattenere la vita, di lavorare con la materia prima dell’essere umano. Credo che lavorare con l’arte consista soprattutto in questo: non cercare di dare una nuova forma alla realtà, ma attraverso un contro linguaggio fatto di regole proprie, arbitrario ma necessario e coerente con se stesso, riuscire a trattenerne una vibrazione che non si esaurisca nel tempo.
Quanto reputi sia importante l’ambito della formazione (dalle università alle accademie) per un artista? Mi racconti come sono stati i tuoi anni da studentessa?
Ti posso parlare della mia esperienza. Allo Iuav fondamentali sono stati Adrian Paci, Giorgio Agamben, Guidi Guidi e altri colleghi artisti. All’Ecole des Beaux Artes ho passato molto tempo a stampare a colori in camera oscura, un’esperienza importantissima, difficilmente replicabile in Italia, dove non ci sono, da quello io sappia, i luoghi dove poterlo fare. Qui Annette Messager mi ha accolta come non avrei mai immaginato, è stata una guida silenziosa, ma fondamentale. A Zurigo, allo ZHDK, ho imparato la tecnica, che volevo conoscere, per potermene poi dimenticare. Poi ho incontrato Beat Streuli, che era già supervisor di un progetto col museo di fotografia di Cinisello Balsamo, anche lui una figura molto importante per me. Ho sempre vissuto il “dovere” dell’Accademia come qualcosa di restrittivo da cui fuggire, ma alla fine, tirando le somme, le mie esperienze formative sono state molto importanti, soprattutto quando il rapporto con gli insegnanti è stato vissuto con sincerità e libertà, diventando uno scambio tra persone vissuto a pari livello.
Se dovessi stilare una top ten di opere d’arte (dal teatro al cinema alla danza alla musica, alla letteratura) quali sono i tuoi “must have”? Quali sono state e sono le tue ispirazioni?
I riferimenti sono come gli amici: certi, di vecchia data, li rivedi dopo qualche anno e non trovi più le parole, la sintonia. Poi, magari, dopo anni li reincontri di nuovo e tutto è come all’inizio. Quindi forse la risposta più onesta che posso darti è questa: nelle ultime settimane ho sentito la necessità di rileggere tre libri, Le voci della sera, di Natalia Ginzburg, Ieri di Agota Kristof e alcuni racconti di Alice Munro. C’è un film, che riguardo spesso e mi parla nello stesso modo con la stessa intensità, che consiglierei a chiunque di vedere, è Les Enfantes du Paradis di Marcel Carné.
Da artista–critico, come definiresti/racconteresti il lavoro che hai scelto per questa esposizione?
Si tratta di una mostra costruita in varie fasi e su più livelli. La parte fotografica raccoglie sei fotografie di grandi dimensioni che ho costruito nel corso degli anni, che è tuttora in evoluzione. Sono il risultato di un lungo processo relazionale con le abitanti di una casa veneziana, “tutti la chiamano la casa delle ragazze”, dove ho vissuto dal 2013 al 2016, tutte artiste. È stato anche un percorso sul potere simbolico dell’immagine, e sull’aspetto performativo e pittorico dell’immagine fotografica. Ogni fotografia è il risultato di mesi di preparazione di set allestiti per la casa, in cui ogni forma, materiale e colore è ricomposto con precisione e dedizione, per poter dare vita a uno spazio libero di movimento dei corpi e delle menti delle ragazze. Ogni volta in cui abbiamo costruito le immagini è stato quasi un atto rituale, in cui riunirci e performare “per” e “con” la macchina fotografica. L’altro livello è costruito dal libro presente in mostra: prodotto dallo studio Cortellazzo Wiel Zardet e Associati e in collaborazione con Tra, è un’opera a molte mani, tutte le ragazze della casa hanno contribuito con schizzi, oggetti recuperati, disegni e materiale d’archivio in un piccolo atlante da sfogliare in libertà, dove vivere l’atmosfera in cui è nata One of Us, la serie fotografica. L’ultimo livello, (da qui il sottotitolo, The cabinet) è l’allestimento di opere delle ragazze e piccoli oggetti nella stanza Ulvi Liegi, la ex camera da letto di Villa Mimbelli. L’allestimento e la concezione della mostra è stato il frutto di una collaborazione con Zoë De Luca, che con grande sensibilità e precisione mi ha aiutata a selezionare tra le innumerevoli possibilità e mi ha guidata attraverso questo viaggio, che tra la leggera ironia e il fare scientifico ha cercato di rispondere alla forte identità del Museo Fattori.
Che rapporto hai con la città in cui vivi?
Da poco mi sono trasferita a Bologna, che vivo un po’ come una navicella fuori dal tempo. Passo molto tempo nella mia casa-studio, che dà sull’enorme giardino della signora Franca, un luogo magico, in cui ha costruito una biodiversità rara da trovare: scoiattoli, tartarughe e pipistrelli si muovono tra palme, banani e cespugli di ortensie. Quando ho tempo vado a trovare Filippo Marzocchi e Mattia Pajè che gestiscono la Gelateria Sogni di Ghiaccio. La città, in cui mi piace fare dei grandi giri in bicicletta e che mi ha accolta fino ad ora molto bene, ancora non la conosco molto, perché sono sempre in viaggio e quando torno ne approfitto per concentrarmi sui miei progetti.
Una delle ultime esposizioni viste che ti ha positivamente colpito?
Negli ultimi due anni sicuramente“Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni a CAMERA a Torino. Negli ultimi due mesi la mostra di Adrian Paci nei chiostri di Sant’Eustorgio a Milano.
Giunti al termine di questa conversazione, agli artisti faccio sempre una domanda… Cosa vorresti che ti chiedessi?
Se c’è una piccola causa a cui tengo. E ti risponderei che dove sono cresciuta, a Conegliano, c’era, a Palazzo Sarcinelli, una magnifica biblioteca a scaffale aperto, con delle stupende prime edizioni e una ricchissima collezione di libri. Dal 2000, la nuova sede della biblioteca è stata spostata in un luogo con pochi posti e non abbastanza grande per contenere la collezione libraria. Tutto per me è partito da quella biblioteca, vorrei che anche le nuove generazioni potessero poter avere accesso a un luogo dove poter leggere e studiare, come ho potuto avere io, e non solo nel mio paese di nascita.
Ultima domanda giuro. Se chiudi gli occhi in questo istante descrivici l’immagine che vedi (se la vedi). 
Vedo quello che c’è anche quando li tengo aperti: una terrazza bianca che si affaccia sul mare di Siracusa illuminato dal sole.
 






 

Filippo Marzocchi - No Past No Future

link: https://wsimag.com/it/arte/27655-no-past-no-future




Sono il vuoto, non sono diverso dal vuoto, né il vuoto è diverso da me; in realtà il vuoto sono io.
(Jack Kerouac)

Filippo Marzocchi, classe 1989, ha realizzato una serie di lavori, per questa prima personale spagnola alla Galeria Fran Reus a Palma di Maiorca, che riflettono sulla personale recente ricerca sul medium pittorico. Oggi più che mai, è necessario interrogarsi sul ruolo della pittura e della rappresentazione stessa, ritornata a gran voce, o forse semplicemente proprio perché sempre esistita, ha visto attraversare cicli a suo favore e non, a fasi alterne, soprattutto con l’avvento dei new media.

La pittura, un medium sempre presente, in un presente che sfugge. Questi i due punctum attraversati nell’analisi spagnola del giovane artista romagnolo. Osservando la serie di lavori, i differenti Untitled, occupano evanescentemente in armonia lo spazio white cube della galleria, la pittura dai toni forti e decisi compatti, blu, rosso, rosa o giallo, è stesa linearmente o “quadratamente” per campiture full. Impossibile non percepire l’eredità di padri americani di metà del secolo scorso come Barnett Newman, echi e tracce di quella che venne definita un ramo dell’espressionismo americano made in Usa: il color field painting*. Sublime e purezza trascendono qualsiasi rappresentazione per donarsi all’estasi cosmogonica di forma che diviene assoluta essenza, assoluto colore, esattamente come molto prima avevano ricercato le avanguardie di inizio secolo come il Suprematismo di Malevič.

Il vuoto è un altro elemento preso sicuramente in considerazione in questa ricerca, soprattutto guardando il grande tondo giallo Untitled – Sun che ricorda alcuni lavori di Ivan Kozaric appartenente al gruppo Gorgona. Un vuoto che sottolinea l’urgenza di ridurre, di purificare una prolificazione incontrollata di immagini ormai onnipresenti nel contemporaneo quotidiano di ognuno di noi, a partire dai social e tv.

Negli Untitled di Marzocchi la tela diviene oggetto altro, come una lavagna total white e vergine è pronta ad accogliere segni e appunti, ipotesi irrazionali di un flusso pittorico in divenire. Le pennellate iconiche, come equazioni irrisolvibili si confrontano sullo spazio del supporto e di visione, ontologicamente. È proprio l’aspetto privato di una mediazione dettata dalla ragione a interessare l’artista. Il colore inoltre è lasciato in bacinelle (Untitled – Icons) sottostanti all’Untitled rosa quadrato, come puro oggetto, come estrema sintesi di un’essenza. Come un tempo in attesa del suo accadimento presente. Il segno pittorico diviene elegante substrato inconscio, orizzonte e misurazione di un tempo eterno, ritmo, qui e ora. Un gioco ciclico, di un tempo presente che scrorre, oltre il post- postmodernismo, che ruota ironico, in red, come in Untitled – Futbol. Un gesto presente a se stesso, privo di magniloquenze decorative, ecco il senso compiuto dell’atto pittorico di Marzocchi. 

Questa ricerca di purezza in pittura è una consequenza, una coerenza stilistica dell’artista, preso negli ultimi anni soprattutto nella ricerca di operazioni sul suono, l’ambiente e la performance. In Marzocchi il dato spettacolare dettato da uno star system dell’ego non interessa, quello che l’artista ricerca, pensando anche a un primo lavoro vincitore del Premio Zucchelli, dove “pitture” di carta fotografica non fissata divenivano materia pittorica mutabile al passare del tempo fino a scomparire; è la relazione con l’accadere del tempo presente. Un “adesso” complesso e fuggevole, irrisolto, mistico, ambiguo e incompleto, e per questo affascinante ed estremamente interessante da un punto di vista di ricerca critico-artistica. 

Ora poniamo qualche domanda all'artista.
Quanto reputi sia importante l’ambito della formazione (dalle Università alle Accademie) per un artista? Mi racconti come sono stati i tuoi anni da studente?
Inizio dichiarando di non essere stato uno studente modello, ho vissuto infatti l’Accademia in maniera molto libera, a tratti distaccandomene, ma quasi mai conflittuale. Credo che non esista una formula universale e che il percorso di ognuno sia davvero personale. Posso confermare che la mia esperienza in Accademia è stata molto utile dal momento che ho incontrato persone che mi hanno aperto molte strade di pensiero e inoltre perché ho avuto un luogo dove concentrarmi, lavorare e raccogliere stimoli. Mi ritengo comunque fortunato perché non sono rimasto incagliato nel sistema accademico, oggi il programma di uno studente tende a perdere nella qualità del tempo a favore della quantità di risultati.
Come ti sei avvicinato all’arte?
Mio padre da giovane dipingeva ed è un appassionato di fotografia, quindi posso dire che la famiglia mi ha dato molti stimoli. Fin da piccolo ho iniziato ad ascoltare tanta musica, sempre grazie a mio padre che aveva una grossa collezione di cd e cassette e mi portava anche a concerti fin da bambino; ricordo ad esempio un Heineken Jammin’ Festival a Imola dove vidi gli Underworld, fu un’esperienza. In più ho viaggiato sempre molto con la mia famiglia e ho avuto la possibilità di conoscere differenti culture, questo probabilmente mi ha influenzato molto. A dodici anni ho iniziato a studiare musica e a quattordici mi sono iscritto al Liceo Artistico.
Se dovessi stilare una top ten di opere d’arte (dal teatro al cinema alla danza alla musica, alla letteratura) quali sono i tuoi “must have”? Quali sono state e sono le tue ispirazioni?
Premetto che sono appassionato di cinema, musica e arte e mi piace conoscere sempre nuovi musicisti e registi, anche artisti, ma un po' meno, mi influenzano troppo. Ti potrei risponderei con le ultime cose che sto ascoltando: Lutto Lento, Sky h1, Kingdom, DHS, M.E.S.H., Babyfather, Awsome tapes from Africa, Pacific Rat Temple Band, Turbo Sonidero, Futuristico e anche un bel po' di corridos, bolero e bhajan. Oppure sto guardando L’isola (Kim Ki Duk), L’estate di Kikujiro (Takeshi Kitano), Il Tigre (Dino Risi); i miei immortali nel cinema sono Herzog, Haneke e Bresson.
Da artista–critico, come definiresti/racconteresti i lavori che hai scelto per l'esposizione No past No future? Titolo per altro piuttosto importante ed emblematico.
Dunque inizierei dal titolo, No Past No Future: scegliendo questo titolo ho compiuto un’azione che solitamente non faccio, ma in questa occasione mi sembrava appropriata, ovvero dichiarare una cosa attraverso la sua negazione. Ho voluto fare questo perché nonostante si tenti di permanere nel tempo presente la mente vaga sempre tra ricordi e immaginazione. Quindi mi è sembrato calzante evocare il tempo presente attraverso la negazione dei suoi “anti tempi”, passato e futuro. Tutti i lavori di questa esposizione li ho realizzati a Palma de Mallorca, città dove si trova la galleria che mi ha invitato, Galeria Fran Reus. Fran, il gallerista mi ha ospitato e ha messo a mia disposizione uno spazio dove lavorare chiamato Forn, lo studio di uno degli artisti della galleria. Fran mi ha lanciato la proposta e io l’ho colta, realizzare la mostra in meno di due settimane in un luogo che non conoscevo è stata una sfida, ma era anche molto in linea con il progetto artistico che ho attuato.
Con No Past No Future ho presentato per la prima volta la ricerca pittorica intrapresa da circa due anni, nella mostra sono presenti anche due sculture che considero concretizzazioni della stessa serie. Le pitture apparentemente sono molto semplici, sono come lavagne bianche dagli angoli smussati sulle quali sono abbozzate delle forme che al massimo mostrano due o tre colori. Quella che compio attraverso la pittura è una ricerca sulla conoscenza, più precisamente sulla comprensione di come si generano contenuti e sulla possibilità di accedere a contenuti non mediati dalla ragione. Le sculture sono un discorso ulteriore, sono oggetti che compro e tratto con la stessa vernice delle tele. Attraverso questi oggetti mi piace alludere a possibili concretizzazioni delle immagini astratte delle pitture, mettendole in relazione nello stesso spazio. Un unico lavoro si differenzia dagli altri, la serie di quattro quadri azzurri all’ingresso. In quel caso ho voluto concentrare l’attenzione sulla fruizione dell’opera e non sulla sua produzione. Si tratta di quattro quadri uguali posizionati ognuno in una direzione differente, come ad esplorare tutte le possibilità del quadrato. Mi piace l’idea che chi guarda questa installazione, attraverso il corpo o lo sguardo è costretto a scorrere lungo lo spazio seguendo il movimento della pittura. Questo lavoro è come l’inizio e allo stesso tempo la fine della mostra e tenta di comunicare direttamente al tempo presente dell’osservatore.
Che rapporto hai con la città in cui vivi?
Devo ammettere che il mio rapporto con Bologna è abbastanza pragmatico, la città fino ad ora mi ha offerto delle possibilità e sono rimasto qui per sfruttarle, inoltre qui ho dei buoni amici. Mi sono trasferito qui a gennaio scorso dopo essere rientrato dall’estero, e ho sentito che era un buon tessuto su cui costruire. Ho puntato tutto sul mio lavoro e così assieme a Mattia Pajè e Marco Casella abbiamo preso uno studio. Inoltre con Mattia abbiamo cominciato a lavorare a progetti che confluivano nella direzione artistica, questo ha portato prima a LOCALEDUE e poi all’apertura dello studio al pubblico come lo conoscete, Gelateria Sogni di Ghiaccio. Quando abbiamo aperto Gelateria eravamo molto determinati e fiduciosi del fatto che il progetto potesse essere accolto in maniera favorevole dalla città e devo decisamente ringraziare Bologna perché fino ad ora abbiamo avuto un buona risposta da tutti e molte soddisfazioni. In questo momento penso di essere arrivato alla fine di un percorso e mi sento orientato verso nuove situazioni, ho già un paio di appuntamenti pianificati sempre in Italia, poi vedrò dove porteranno gli eventi.
Una delle ultime esposizioni viste che ti ha positivamente colpito?
Hypothesis di Parreno all’Hangar Bicocca mi ha segnato. Molto bella poi Distiller a Milano curata da Bruno Barsanti e Gabriele Tosi.















Flavio Pacino - Natura Naturans - @LAGOLANDIA - Castel dell'Alpi

link: http://www.ofcn15.com/eventi/lagolandia-2017-castel-dellalpi/








Quando eravamo bambini, pensavamo che una volta cresciuti non saremmo più stati vulnerabili. Ma crescere vuol dire accettare la vulnerabilità. Essere vivi significa essere vulnerabili. Madeleine L'Engle, Walking on Water, 1980

Flavio Pacino indaga e lavora sullo spazio fisico, ambientale tramite la trasposizione materica del segno.
Un segno effimero, contemporaneo che sfugge dalla cornice e dal contesto, da una propria bidimensionalità concettuale per rendersi materia fisica, corpo caduco.
In molti suoi lavori Pacino conduce e ci conduce attraverso la propria poiesis in una ricerca sull’adattabilità.
Un adattabilità che diviene sistematicamente vulnerabilità.
Una ricerca mobile che diviene abbandono di pose precostituite.

Forse l'immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall'immobilità del nostro pensiero nei loro confronti.” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto)

Guardando ad alcune delle ricerche storico – artistiche tra le più importanti del secolo scorso come land art, minimalismo e ad alcune operazioni dell’arte povera, possiamo dire che Pacino ripopola certi codici linguistici utilizzando elementi semplici sia nella forma che nella consistenza, egli infatti predilige per le sue installazioni utilizzare (s)(segni)- legni, possibilmente e preferibilmente non lavorati dall’artista, ma soggetti quindi a erosioni climatiche – atmosferiche o precedentemente lavorati industrialmente. L’objet-trouvè di avanguardistica memoria, ritorna prepotentemente, irrompendo in un contemporaneo liquido, dove il segno  etereo (l’immagine) sembra sempre di più prevalere.
Ecco allora che la trasposizione fisica di un di-segno (traccia, indizio, interstizio, visione attraverso la quale, ma mai risolutoria) iniziale essenziale, costituito da pochi tratti e linee, torna ad occupare spazi di origine diversa, che siano essi naturali, domestici, o spazi pubblici espositivi come gallerie o musei. All’artista interessa che i legni utilizzati assemblati con resine acriliche, permettano operazioni duttili, scultoree, corporee, come corpo danzante danza, le installazioni di Pacino si innestano delicatamente, soggette ad una trasversalità temporale di cambiamento dalla quale esimersi è impossibile.
Adattarsi ad uno specifico spazio (come in questo caso, per Lagolandia, il lago naturale di Castel Dell’Alpi) richiede una profonda analisi di contesto, di ambiente; lo sforzo diventa urgenza e la vulnerabilità ci riporta ad una caducità propria del contemporaneo, così labile e complessa.
Insisto sul concetto di vulnerabilità, perché esso coincide puntualmente con una straordinaria ipotesi, e cioè quella della possibilità dell’essere. Una possibilità dell’essere modificato, urtato, distrutto, perito, leso, spezzato.  Il legno, come elemento d’elezione, è una datità fenomenica caduca ma essenziale in natura.
L’alfabeto visivo di Pacino infatti si nutre di pose e ritmi essenziali, che siano essi lacci, elastici, fasce, stelle filanti, nastri, rami di piante, l’esilità (una fragilità tellurica e vibrante alla Calder), lunghezza e leggerezza si incontrano e si fondono in una trasparenza cosmogonica, per dare forma a riflessioni sullo spazio e sulla quotidianità. Uno spazio ed una quotidianità  troppo spesso condivise unicamente virtualmente, depauperate,  e allora occorre (ri) tornare ad una fisicità che come esigenza si prefigge un dialogo con l’essere mondo e nel mondo.
Vulnerabilità che vuol essere anche perdita originaria di un elemento o di un segno primario per poi ricondurlo, riportarlo ad una adattabilità, appunto, di nuove spazialità temporali. Di ipotesi.
Oggi come non mai l’arte pubblica richiama grande attenzione sia da parte dei fruitori  distratti per così dire, i non addetti o direttamente coinvolti nel sistema dell’arte contemporanea, che agli esperti, quali studiosi o critici.  Pacino, giovanissimo, decide di ragionare proprio su queste complessità di condivisone di spazi pubblici, attraverso una grafia ed una gestualità minimale, fisica, scultorea, elastica, non invasiva, ma adattabile ad uno spazio critico di cambiamento. Di condivisione.

Federica Fiumelli



BIO // Flavio Pacino, Firenze 1993
Inizia il suo percorso progettando tessuti e pattern all’Istituto Buzzi di Prato. Nel 2010 inizia i suoi studi di pittura nello studio dell’artista Fran Bobadilla.
Si laurea come progettista in design della comunicazione e del prodotto all’ISIA di Firenze nel 2016. Dal 2013 al 2016 lavora come assistente progettista nello studio d’arte e progettazione WAVE BUBA di Firenze.
Attualmente frequenta il biennio di Arti visive dell’artista Luca Caccioni all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Alterna i suoi studi e il suo lavoro tra arte e design.